Obiettivo: studiare il tumore al pancreas per scoprirne superpoteri e punti deboli

Obiettivo: studiare il tumore al pancreas per scoprirne superpoteri e punti deboli

Dopo la laurea a Napoli, Vincenzo Corbo svolge gran parte del suo percorso di ricerca a Verona. La scelta della città non è stata casuale: già a Napoli aveva cominciato a studiare il pancreas nel diabete e a Verona esiste uno dei migliori centri al mondo per lo studio del tumore del pancreas, una delle neoplasie con minori probabilità di guarigione. Ha continuato a studiare questo tumore anche durante i tre anni di post-dottorato al Cold Spring Harbor Laboratory, vicino a New York. 

Vincenzo è rientrato in Italia, dagli Stati Uniti, nel 2018 grazie a un grant Start-Up AIRC, all’Università di Verona ha potuto creare un gruppo di ricerca indipendente, focalizzato sul tumore del pancreas. Ora sta proseguendo i suoi studi grazie ad un Investigator Grant ottenuto nell’ambito del bando AIRC riservato ai ricercatori affermati.

Che risultati sei riuscito a conseguire in questi anni?

Negli anni scorsi abbiamo lavorato soprattutto alla costruzione di sistemi sperimentali in cui riprodurre il più fedelmente possibile molti aspetti del cancro al pancreas. Abbiamo partecipato a un consorzio internazionale, la Human Cancer Models Initiative, che ha coinvolto alcuni dei principali centri di ricerca sul cancro a livello mondiale. Oggi i sistemi che abbiamo messo a punto, in cellule in coltura e in animali di laboratorio, sono a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo. Sono strumenti indispensabili per studiare la malattia e i meccanismi che la sostengono, così come per sperimentare nuovi farmaci e comprendere la risposta ai trattamenti.

A cosa stai lavorando ora?

Il principale obiettivo mio e del mio gruppo è comprendere quali elementi rendono le cellule del tumore del pancreas particolarmente aggressive. Stiamo cominciando a capire che ciò potrebbe essere legato al particolare microambiente in cui sono immerse. Si tratta di un microambiente poco accogliente: ci sono scarso ossigeno e pochi nutrienti, e la struttura rigida sottopone le cellule tumorali a un forte stress meccanico. Queste condizioni dovrebbero ostacolare la crescita delle cellule tumorali. Invece non è così. La nostra idea è che, nei tempi lunghi che il cancro al pancreas impiega per svilupparsi, queste condizioni difficili “temprino” le cellule tumorali e le rendano particolarmente tenaci.

In che modo ciò avviene?

Stiamo svelando alcuni meccanismi coinvolti in questi processi. Recentemente, per esempio, sulla rivista Gut abbiamo pubblicato un articolo in cui abbiamo mostrato che il prodotto del gene Semaforina 3A ha un ruolo importante nel cancro al pancreas. Si tratta di un gene normalmente attivo in cellule del sistema nervoso. Ma quando viene stimolato dalle condizioni di stress di cui abbiamo appena parlato, il gene, tramite la proteina da esso specificata, promuove l’acquisizione di caratteristiche aggressive del tumore. In particolare, sembra rendere le cellule tumorali capaci di sopravvivere durante il processo di migrazione che porta alla diffusione delle metastasi. Ma è solo uno dei meccanismi che paiono conferire maggiore aggressività al tumore al pancreas.

I risultati che abbiamo ottenuto in questo ultimo studio mostrano in particolare l’importanza del cosiddetto DNA extracromosomico nel conferire al tumore del pancreas una grande capacità di adattamento. In genere il DNA cellulare è organizzato in strutture, i cromosomi. Ogni cellula possiede due copie di ciascuno, racchiuse nel nucleo. Quando si divide e dà origine a due cellule figlie, in genere ciascuna riceve un patrimonio genetico ripartito nei cromosomi. Questo è pressoché identico a quello della cellula madre, e, soprattutto per tale ragione, le cellule figlie hanno sostanzialmente le stesse caratteristiche genetiche della cellula madre. In ogni cellula ci sono però degli agglomerati di DNA che non sono inclusi nei cromosomi e per questo sfuggono a questa equa ripartizione durante la divisione cellulare tra le cellule figlie. L’eterogeneità cellulare che deriva da questo fenomeno può far emergere cellule capaci di sopravvivere alle condizioni di stress tipiche dell’ambiente del cancro al pancreas.

Possono esserci ricadute terapeutiche dai risultati di questa ricerca?

Grazie ai fondi che AIRC ci ha messo a disposizione vorremo davvero capire se è possibile identificare delle vulnerabilità di questo tumore e se queste possano essere utilizzate per migliorare l'aspettativa e la qualità di vita dei pazienti con questa malattia.

Se capiremo infatti in che modo le cellule tumorali si adattano a queste condizioni di stress diventando più aggressive, potremmo essere in grado di interferire con questi meccanismi e privarle della capacità di adattamento.

Tuttavia, quanto più lo si studia, tanto più si comprende che il tumore del pancreas è molto complesso. Occorrerà molto lavoro per arrivare a risultati concreti per i pazienti.

Cosa significa per te fare ricerca?

Fare ricerca significa tanto sacrificio innanzitutto. Significa farsi tante domande e non avere mai certezze. È un lavoro 24 ore su 24. Quindi è un lavoro immersivo. Il mio capo diceva che bisognerebbe avere il taccuino vicino al letto e il registratore vocale, perché se ti svegli di notte e ti viene un’idea?! Che effettivamente è vero.

Il lavoro del ricercatore affascina per la possibilità di affrontare sempre nuove sfide, per il fatto di non essere un lavoro per così dire "statico" e soprattutto perché prevede la necessità di confrontarsi continuamente con persone di estrazione e provenienza diverse.

Qual è per te il ruolo di AIRC?

La ricerca è fondamentale. Noi siamo grati ad AIRC perché per chi fa ricerca oncologica rappresenta un supporto reale in quello che facciamo tutti i giorni e che pure prevediamo di fare in futuro.

Come sei cambiato come ricercatore in questi anni?

Ho continuato a imparare tante cose e credo di essere migliorato, sia da un punto di vista scientifico sia nella comunicazione della scienza. Ho fatto anche progressi nella gestione dei rapporti con le persone che lavorano nel mio gruppo di ricerca. Per esempio, all’inizio avevo la tendenza ad aspettarmi che gli altri membri del mio gruppo “somigliassero” a me, nel comportamento e nel modo di pensare; ma con il tempo ho capito che il mio compito è capire le peculiarità di ciascuno di loro, facendo emergere le caratteristiche migliori e lavorando sulle debolezze.

E la tua vita fuori dal laboratorio?

Passo molto tempo in laboratorio, quindi non c’è tanta vita in laboratorio. Quando esco, l’impegno principale è la mia famiglia: sono completamente assorbito dalle mie figlie. Ho due bimbe di 7 e 2 anni e quando non lavoro sono papà full time. E a luglio arriverà la terza!

  • Vincenzo Corbo

  • Università:

    Università di Verona

  • Articolo pubblicato il:

    6 giugno 2024