I carboidrati sono i macronutrienti più abbondanti in cereali, frutta, verdura e legumi e, di conseguenza, nella nostra alimentazione. Forniscono in media 4 kcal per grammo consumato e rappresentano la principale fonte energetica nella nutrizione umana. Secondo le Linee guida per una sana alimentazione, stilate dal Centro di ricerca Alimenti e Nutrizione del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA), da essi dovrebbe provenire il 45-60 per cento circa dell’apporto energetico quotidiano, per almeno tre quarti sotto forma di carboidrati complessi e per non più del 10 per cento sotto forma di zuccheri semplici.
L'importanza dei carboidrati deriva dal fatto che vengono assorbiti e utilizzati dall’organismo molto facilmente, assicurando alle cellule un rapido rifornimento di glucosio e quindi di energia. Negli ultimi anni l’attenzione e la sensibilità dei consumatori nei confronti di questi macronutrienti è progressivamente cresciuta. La diffusione di alimenti ultraprocessati ha favorito in molti casi un consumo eccessivo di carboidrati, che, al pari di quello eccessivo di grassi e proteine, può portare a condizioni come sovrappeso e obesità, associate a malattie tra cui molti tipi di tumori. Per contrastare questa tendenza si sono diffuse diete dimagranti con un ridotto apporto di carboidrati: una scelta che però non risulta mai sostenibile nel lungo periodo e che in molti casi è all’origine di quell’effetto “yo-yo” che porta molte persone, dopo aver perso anche un numero considerevole di chili, a recuperarli poco alla volta.
I carboidrati vengono così chiamati poiché sono, appunto, degli idrati di carbonio. A seconda della loro struttura chimica e del grado di complessità vengono classificati in quattro categorie: monosaccaridi, disaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi.
I monosaccaridi, chiamati generalmente zuccheri, rappresentano la forma più semplice dei carboidrati, dal momento che non possono essere trasformati in unità più semplici. A seconda della lunghezza della catena che li compone, i monosaccaridi sono a loro volta suddivisi in diverse categorie. I più importanti dal punto di vista nutrizionale sono gli zuccheri a cinque atomi di carbonio (come gli acidi nucleici, il ribosio e desossiribosio) o a sei (glucosio). Il glucosio è il monosaccaride più abbondante; si trova allo stato libero in tessuti e fluidi corporei e rappresenta il principale “carburante” del nostro organismo. Un altro monosaccaride noto è il fruttosio, che ha la stessa composizione del glucosio, ma con una disposizione differente degli atomi. Tutti gli altri, molti dei quali di sintesi, hanno un ridotto valore nutrizionale.
Dall’unione di due monosaccaridi nascono i disaccaridi. I più utilizzati in cucina sono il saccarosio (lo zucchero da cucina, composto da glucosio e fruttosio), il maltosio (due unità di glucosio) e il lattosio (glucosio e galattosio). Altre molecole note appartenenti a questa categoria sono il trealosio (composto da due unità di glucosio legate in maniera differente rispetto a quanto avviene per il maltosio; è usato come additivo alimentare ed è presente nei funghi) e il lattulosio (derivato del lattosio, è una molecola con azione lassativa).
Dall’unione di più monosaccaridi possono nascere anche gli oligosaccaridi, zuccheri normalmente composti da un numero di atomi di carbonio compreso tra 3 e 9. Si tratta di molecole che, per la difficoltà a legarsi ai recettori del gusto, conferiscono agli alimenti una dolcezza inferiore rispetto ai mono e ai disaccaridi. Possono derivare da vegetali, essere il prodotto della degradazione di polisaccaridi più complessi o essere stati sintetizzati in laboratorio. Queste molecole in gran parte resistono all’azione degli enzimi digestivi e passano intatte nel colon, dove trovano batteri in grado di scinderle e di produrre quantità elevate di anidride carbonica e gas. Tra gli alimenti più ricchi di oligosaccaridi troviamo alcuni legumi (come i fagioli e i piselli), cereali (per esempio il frumento) e vegetali (per esempio la cicoria, le cipolle, i carciofi).
Salendo nella scala di complessità, si arriva ai polisaccaridi (o glicani), molecole costituite da molte unità di zuccheri. A livello nutrizionale l’amido è la principale fonte di carboidrati complessi della dieta umana, ed è presente nei cereali, nei tuberi e nei legumi. Il processo di digestione di questi zuccheri inizia nella cavità orale e si completa nell’intestino tenue, grazie all’azione combinata dei succhi pancreatici e intestinali, che possono trasformare l’amido in maltosio e destrine. La digeribilità di questo polisaccaride varia a seconda della specie che lo contiene, della quantità di fibre presente nello stesso alimento e delle modalità con cui i cibi sono cotti. Di norma l’amido è costituito da una porzione che viene immediatamente digerita (nei primi 20 minuti dall’ingestione dell’alimento), una a più lenta degradazione (20-120 minuti) e una che non viene metabolizzata e dunque non rientra nella quota biodisponibile. La velocità di idrolisi dell’amido è massima per le patate e minima per le lenticchie. Più in generale, l’amido che proviene dai cereali è considerato più digeribile rispetto a quello derivante dai legumi.
La principale fonte di carboidrati è costituita dai cereali, piante erbacee appartenenti alla famiglia delle graminacee. Il loro consumo consente di preservare il controllo della glicemia e di garantire il mantenimento di un buono stato di salute intestinale, grazie anche all’apporto di fibre alimentari. Essi favoriscono inoltre un apporto adeguato di micronutrienti e antiossidanti.
I cereali di più largo consumo sono il frumento, il riso e il mais; a seguire, troviamo l’orzo, il farro, la segale e l’avena. Da essi si ricavano le farine alla base della produzione di pasta, pane, riso, prodotti da forno e preparazioni per la prima colazione, che garantiscono anche un modesto apporto (7-12%) di proteine, sebbene di modesta qualità. Analogamente ai cereali, anche i tuberi (patate, manioca, topinambur) rappresentano una fonte di amido.
Di questo gruppo di alimenti è consigliato il consumo di almeno 4-5 porzioni al giorno. Per la pasta si raccomanda che ogni porzione sia di 80 g (120 g se fresca o all’uovo); per il pane di 50 g e per le patate di 200 g. Per colazione dovrebbero bastare 2-4 biscotti (a seconda della dimensione), 2 cucchiai di cereali o 45-50 g di pane.
Ogni chicco di qualsiasi cereale è costituito da tre parti distinte: la crusca esterna (ricca di fibre), il germe interno (che contiene micronutrienti) e l’endosperma (ricco di amidi). I cereali integrali comprendono tutte e tre le componenti del chicco, mentre quelli raffinati subiscono una lavorazione che elimina gli strati corticali esterni (crusca e germe). Contrariamente a quanto si può pensare, la differenza principale tra questi prodotti non riguarda il valore energetico, quanto piuttosto l’apporto in micronutrienti (minerali e vitamine) e in fibra alimentare.
I risultati di alcune ricerche hanno mostrato che i prodotti a base di cereali integrali (per il 50 per cento o più della loro composizione) sono più salutari. Un chicco integrale (anche nella versione priva degli strati più esterni della crusca) offre infatti un apporto significativo di fibre che vanno in larga parte perdute con la raffinazione. Da non trascurare la quota di polifenoli antiossidanti (acido ferulico, vitamina E, betaina, folati), di minerali (magnesio, selenio, rame) e di grassi insaturi presenti nel germe e quindi nei prodotti integrali. Il chicco intero è perciò uno “scrigno” di molecole ad alto valore biologico da preservare.
Quanto ai benefici per la salute umana, in Europa le evidenze più significative sono emerse dallo studio EPIC, a cui hanno partecipato anche diversi ricercatori sostenuti da Fondazione AIRC. Il consumo di prodotti realizzati a partire da cereali integrali aiuta a tenere sotto controllo i valori di glucosio, colesterolo e trigliceridi nel sangue. Inoltre contribuisce a mantenere un peso nella norma, grazie al maggiore senso di sazietà indotto dal consumo di cereali integrali, all’apporto di fibre (che ha effetti positivi sulla regolarità intestinale) e all’effetto di “selezione” del microbiota intestinale più favorevole.
Per aiutare a scegliere il tipo di zuccheri più conveniente da assumere, e quindi anche a discriminare fra gli alimenti che li contengono, da diversi anni è stato introdotto il cosiddetto indice glicemico. Questo indicatore esprime la percentuale di incremento della glicemia che si verifica dopo l’assunzione di porzioni di alimenti di largo consumo rispetto a quello indotto dal solo glucosio (il cui indice glicemico viene convenzionalmente fissato come pari a 100). L’indice glicemico di un alimento, pur non variando di molto se l’alimento viene ingerito da solo oppure nel contesto di un pasto misto, risente della contemporanea presenza nei cibi di grassi e di fibre. Questi, rallentando l’assorbimento dei carboidrati contenuti nel piatto, concorrono alla riduzione del valore di questo indicatore.
All’indice glicemico, più recentemente, è stato collegato un secondo metodo di valutazione del profilo nutrizionale di una pietanza: il carico glicemico. Questo valore si ottiene moltiplicando la quantità di carboidrati contenuta in una porzione di un alimento per l’indice glicemico dello stesso, e dividendo il prodotto per 100. In altre parole, l’indice glicemico sta al carico glicemico come il peso specifico di un dato materiale sta al peso di quel materiale.
L’assunzione di cibi ad alto indice glicemico (o il consumo di portate ad alto carico glicemico) comporta il rapido aumento del glucosio nel sangue, seguito da un’aumentata secrezione di insulina da parte del pancreas. Al contrario, l’assunzione di cibi a basso indice glicemico, anche a parità di apporto calorico, determina un aumento più contenuto (ma più prolungato) della glicemia, con una conseguente minore secrezione di insulina. Questa differenza può aiutare a gestire meglio il diabete di tipo 2, mentre non è ancora stato chiarito se possa influenzare anche la prevenzione di questa malattia.
Rispetto al rischio oncologico, a oggi abbiamo prove solide che ci sia una correlazione tra una dieta ad alto carico glicemico e una maggiore probabilità di sviluppare un tumore del corpo dell’utero. Ad aumentare il rischio per questo tipo di tumore sarebbero la condizione di insulino-resistenza, il diabete e l’obesità, che possono derivare da quel tipo di alimentazione. L'obesità peraltro, a prescindere dal carico glicemico dei pasti, è già di per sé un fattore di rischio per la stessa malattia.
L’ipotesi di una correlazione tra consumo di zuccheri e probabilità di sviluppare una neoplasia deriva dal fatto che le cellule utilizzano il glucosio come fonte energetica. Lo stesso zucchero può quindi fungere da “benzina” per la crescita dei tumori. Partendo da queste asserzioni, molti consumatori hanno iniziato a limitare in maniera significativa l’apporto di carboidrati nella dieta, fino talvolta a escluderli del tutto. Tale scelta non è salutare e, soprattutto, non riduce in alcun modo il rischio di sviluppare uno dei tumori maggiormente correlati all’alimentazione, quello del colon-retto; al contrario, riducendo l’apporto di fibre alimentari, rischia di favorirne l’insorgenza.
Fu Otto Heinrich Warburg a scoprire che le cellule che si sono evolute in un cancro traggono energia dalla cosiddetta glicolisi aerobica, un processo metabolico che porta le cellule a trasformare glucosio in lattato per trarre energia. L’attività glicolitica delle cellule tumorali può essere fino a 200 volte superiore a quella dei tessuti sani. Ma tale attività è una conseguenza della malattia, caratterizzata da una eccessiva attività delle cellule maligne, che hanno bisogno di più energia rispetto a quelle sane, e non una causa. Ragion per cui l’apporto di carboidrati attraverso la dieta non è, da questo punto di vista, come “benzina” per i tumori.
Diverso è invece il rapporto che lega il consumo di zuccheri e carboidrati, l’aumento della glicemia e dei livelli di insulina e il rischio oncologico. L’insulina è l’ormone prodotto dall’organismo in risposta all’aumento di zuccheri nel sangue (glicemia), ma regola anche altri aspetti del funzionamento dell’organismo e per questo è considerata un ormone chiave nella relazione tra cibo e cancro. Troppa insulina in circolo, per esempio, induce una produzione eccessiva di testosterone, l'ormone sessuale maschile, nella donna. Inoltre l’insulina favorisce la produzione di un fattore di crescita chiamato IGF-1, che è un vero e proprio carburante (questo sì) per le cellule in generale e in particolare per quelle cancerose. Alcuni tumori, come per esempio quello del seno, sono particolarmente sensibili all’azione combinata degli ormoni sessuali e dei fattori di crescita e risultano quindi, secondo alcuni studi, più strettamente legati al consumo di zuccheri.
A ciò occorre aggiungere che i risultati di diversi studi osservazionali hanno mostrato un chiaro legame tra l’iperinsulinemia (l’elevata presenza di insulina nel sangue) e l’aumento del rischio di tumori correlati all’obesità. Gli zuccheri che ingeriamo possono essere stoccati sotto forma di glicogeno in quantità limitate; la parte eccedente viene convertita in grassi, che possono essere conservati nello stesso spazio in maggiori quantità (non avendo bisogno di legarsi all’acqua). Questo processo determina un aumento della massa grassa e, di conseguenza, del peso corporeo, con un rischio maggiore di ammalarsi di diverse forme di cancro.
Un altro elemento fuorviante spesso presente nei consigli nutrizionali in rete riguarda la fonte degli zuccheri. Il corpo umano non distingue tra il saccarosio proveniente da una fetta di torta e quello contenuto in una carota. Così come non distingue tra il fruttosio ottenuto dalla demolizione del saccarosio e quello contenuto nella frutta. Ridurre il consumo di dolci è certamente salutare ed è un buon modo per combattere l’obesità, ma tale rinuncia non serve se poi si assume un’uguale quantità di zuccheri mangiando tantissima frutta o dolcificando il caffè con il fruttosio.
Sulla base di tutte le indicazioni fornite, si può dunque concludere che al momento non ci sono evidenze scientifiche che correlino direttamente il consumo di carboidrati al rischio di ammalarsi di cancro. Né tantomeno a quello di andare incontro a una recidiva per chi ha già avuto un tumore. Certo è invece l’effetto protettivo che le fibre alimentari, la maggior parte delle quali vengono ingerite attraverso i carboidrati, garantiscono al colon-retto. A ciò occorre aggiungere che l’organismo, in assenza degli zuccheri, demolisce le proteine e i grassi per ottenere glucosio e dunque energia prontamente disponibile. Per tutte queste ragioni, dunque, non vi è motivo per ridurre oltremodo il consumo di carboidrati al di sotto di quelle che sono le indicazioni fornite dalle linee guida, o addirittura di eliminarli del tutto dall’alimentazione.
Seguire diete restrittive con bassi livelli di carboidrati è sconsigliato in particolare alle persone che si sono già ammalate di cancro. Il loro organismo potrebbe risultare infatti già debilitato dalla chemioterapia o dalle conseguenze innescate dal tumore stesso.
Quello che invece è utile fare in ogni caso è limitare l’apporto di zuccheri semplici, a cui risultiamo “esposti” soprattutto attraverso gli alimenti trasformati (principalmente snack e bevande dolci). Il loro impatto sui livelli di glicemia e insulinemia è infatti significativo, a fronte di un apporto nutrizionale di scarsa qualità. Così facendo, dunque, non ci si priva di alcun nutriente essenziale e si riducono le probabilità che nel nostro corpo vengano a crearsi condizioni fisiologiche in grado di condizionare l’evoluzione delle cellule in senso tumorale.
Fabio Di Todaro
Articolo pubblicato il:
19 gennaio 2023