Ultimo aggiornamento: 19 maggio 2021
Titolo originale dell'articolo: Vemurafenib plus Rituximab in Refractory or Relapsed Hairy-Cell Leukemia
Titolo della rivista: New England Journal of Medicine
Data di pubblicazione originale: 13 maggio 2021
I risultati di uno studio clinico coordinato dall'Università di Perugia mostrano una risposta terapeutica completa e duratura nella maggior parte dei pazienti con leucemia a cellule capellute recidivante e refrattaria trattati con vemurafenib in combinazione con rituximab.
Dieci anni esatti: è quanto ci è voluto per passare dall’identificazione della lesione genetica responsabile della leucemia a cellule capellute – una rara forma di leucemia che coinvolge i linfociti B – alla messa a punto di una strategia terapeutica particolarmente efficace, basata sulla combinazione di due farmaci a bersaglio molecolare. Fautori di questo veloce percorso dal laboratorio al paziente sono stati Brunangelo Falini, Enrico Tiacci e il loro gruppo di ricerca all’istituto di ematologia, Dipartimento di medicina, dell’Università di Perugia. Il gruppo lavora da anni con il sostegno di Fondazione AIRC e in più occasioni ha pubblicato i risultati della propria ricerca sul prestigioso New England Journal of Medicine.
“Tutto è cominciato nel 2011, quando, con Tiacci e altri colleghi, abbiamo scoperto che una particolare mutazione del gene BRAF, già descritto tra i responsabili di alcune forme di melanoma, è coinvolta nell'insorgenza della leucemia a cellule capellute” ricorda Falini. Poiché si tratta di una mutazione piuttosto specifica per questa malattia, i ricercatori hanno subito pensato a possibili implicazioni diagnostiche e terapeutiche. Da un lato, hanno messo a punto un test molecolare per la ricerca mirata di questa mutazione a scopo diagnostico. Dall'altro lato, hanno condotto il primo studio clinico per valutare l'efficacia di vemurafenib, un inibitore di BRAF già utilizzato in ambito sperimentale per curare il melanoma, in pazienti con leucemia a cellule capellute, recidivante e refrattaria alla chemioterapia tradizionale. “Abbiamo osservato” continua Falini “che circa il 95 per cento di questi pazienti rispondeva bene alla nuova terapia, ma che la risposta era di breve durata: non oltre i 10-14 mesi anche nei casi di remissione completa. Questo perché rimaneva sempre una minima percentuale (5-10 per cento) di cellule malate resistenti al vemurafenib.”
Il passo successivo, quello che ha portato a un nuovo studio clinico e agli ultimi risultati del gruppo di ricerca, è stata l'osservazione che queste cellule resistenti presentano sulla superficie una molecola chiamata CD20 che può essere colpita in modo specifico dal rituximab, un anticorpo monoclonale già disponibile in clinica. Da qui l’idea di testare la combinazione di vemurafenib più rituximab in uno studio che ha coinvolto 30 pazienti con leucemia a cellule capellute recidivante e refrattaria. I ricercatori hanno osservato tre effetti particolarmente positivi. “Innanzitutto” riassume Falini “abbiamo notato un aumento molto significativo della percentuale di remissioni complete, dal 35 per cento per i pazienti trattati con solo vemurafenib a quasi il 90 per cento per quelli trattati con entrambi i farmaci. Inoltre il periodo di trattamento può essere limitato a poche settimane e la sopravvivenza libera da progressione di malattia è di circa tre anni, quindi molto più lunga. Non possiamo garantire che questi pazienti siano definitivamente guariti, ma ci sembra evidente che il trattamento combinato sia più efficace di quello con vemurafenib da solo.”
Ora Falini e Tiacci stanno lavorando al progetto di un nuovo studio clinico, per valutare efficacia e sicurezza della combinazione di vemurafenib più rituximab anche come prima linea di trattamento (dunque senza chemioterapia) nelle leucemie a cellule capellute recidivanti, rispetto al trattamento convenzionale che prevede la chemioterapia associata al rituximab.
Valentina Murelli