Ultimo aggiornamento: 6 ottobre 2022
Giacomo ha lottato a lungo contro un linfoma di Hodgkin molto aggressivo, ma oggi, 10 anni dopo, può raccontare la sua storia con serenità.
Giacomo ha lottato con una grinta unica, da giovanissimo, per due anni, contro un tumore aggressivo, inoperabile, recidivante. E lotta ancora, in modo diverso, per difendere i diritti delle famiglie arcobaleno e delle persone transessuali. Coordina un gruppo di lettura LGBT e, per dare ancora maggior forza alle sue azioni, le racconta e si racconta scrivendo romanzi, come La formula chimica del dolore (Mondadori) e Zucchero e catrame (Fandango).
Quando si presenta, non nasconde nulla di sé, in particolare le sue scelte di campo.
“Sono un avvocato e sin da quando ero all’università ho pensato che le persone gay o transessuali non dovrebbero mai avere paura di ottenere giustizia, ma dovrebbero essere ‘ossessionate’ dalla ricerca della giustizia, dall’affermazione della propria dignità. Con Rete Lenford, un’associazione di avvocati per i diritti LGBT, ho lavorato in cause sul riconoscimento del matrimonio same sex contratto all’estero, e ho poi assistito famiglie con due padri o due madri, o migranti gay che nel paese d’origine rischiavano di finire massacrati. Non possiamo sempre voltarci dall’altra parte e sperare che le ingiustizie si cancellino da sole.”
C’è stato un momento, però, in cui Giacomo si è voltato dall’altra parte perché il dolore non lo faceva respirare. In ogni senso.
“Nel 2006 mi hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkin. Il tumore, grosso quanto una palla da tennis, schiacciava cuore e polmoni. Per molti mesi i medici avevano ipotizzato che si trattasse di un’aritmia cardiaca: mi hanno defibrillato più volte, somministrato farmaci per rallentare il battito cardiaco, dato antibiotici perché tossivo di continuo. Poi in sala operatoria hanno aperto il petto e trovato una massa maligna di 12 cm. Hanno ricucito e ho cambiato reparto: da cardiologia a oncologia.” Così Giacomo inizia sei cicli di chemioterapia, ma appena finiscono il cancro ritorna e deve sottoporsi a cure ancora più invasive.
“Si chiamavano ‘terapie di salvataggio’, un’espressione terrificante: mi ricoveravano per alcune settimane e mi iniettavano un mix di chemioterapici colorati a dosi molto alte, dovevo rimanere in camera sterile per evitare infezioni. Avevo dolori fortissimi, sembravano bastonate sulla schiena, e il 50 per cento di possibilità di sopravvivere: testa o croce, vita o morte.”
Poi è la volta della radioterapia e, infine, del trapianto di midollo autologo. Si tratta di un percorso duro, che rende Giacomo sterile e lascia non pochi segni sulla sua quotidianità. “Mi è rimasta addosso una sensazione di precarietà. Sono ateo e sbattezzato, mi definirei ‘greco’: sono dominato dalla dimensione tragica dell’esistenza ossia dalla consapevolezza della mia mortalità, del fatto che con la morte tutto finisce e non ci sarà, dopo, un bel niente. La nostra società fa di tutto per cancellare la morte dal nostro vissuto, dalle nostre riflessioni. Forse è meglio così.” Ma la psicoterapia scioglie alcune paure e l'incontro nel 2011 con Manuel, che dal 2016 è suo marito, sposato a Copenaghen, mette il sigillo finale sulla felicità. “Stava leggendo il mio romanzo sul tumore, La formula chimica del dolore: mi sono innamorato appena l’ho visto, è la persona più bella dell’universo.”
“C'è una costante nella mia vita: la fiducia nella scienza e le donazioni ad AIRC, per esempio come regalo di compleanno o di Natale. Se mi fossi ammalato 20 anni prima, non sarei sopravvissuto. E se mi capitasse adesso, invece, 10 anni dopo, potrei contare su cure meno debilitanti e più efficaci. La ricerca mi ha letteralmente salvato la vita.”