Ultimo aggiornamento: 9 marzo 2023
Quando ha scoperto di avere il tumore di Wilms, Andrea aveva solo 12 anni. Ora, dopo più di un anno di terapia, è guarito e corre più veloce di prima.
Come in tutti gli altri giorni d’estate, Andrea sta giocando a pallone con gli amici sulla spiaggia, quando sente un forte dolore allo stomaco. Ha 12 anni, è concentrato sulla prossima pallonata e ignora la fitta. Il giorno dopo però il dolore si fa più intenso e giocare a calcio diventa impossibile. Per la madre questo è un segnale forte e chiaro: qualcosa non va. Decide così di portarlo subito dal suo medico per un controllo. Deve fare un’ecografia.
Andrea va così all’ospedale Gaslini di Genova, insieme ai genitori. Appena arrivano i risultati dell’esame, ci sono molti dottori attorno a lui, e sembrano agitati. La diagnosi è tumore di Wilms, una forma di cancro ai reni frequente in età infantile. Bisogna operare d’urgenza.
È il 15 luglio 1996 e da quel momento la vita di Andrea cambia. Deve iniziare un lungo percorso di chemioterapia, che lo costringe a stare a casa e lo fa stare molto male. Ha continuamente la nausea e si sente debole. Andrea però rimane ottimista, è convinto di farcela. “In testa avevo solo un pensiero: tornare a giocare a pallone. A ogni appuntamento di chemioterapia facevo il conto alla rovescia, perché era un passo in più verso il campo da calcio”.
In questo percorso è di fondamentale supporto la sua famiglia composta da papà, mamma e il fratello Alessandro, di quattro anni più grande. “Mio fratello non mi ha mai trattato da malato e ha continuato a comportarsi con me allo stesso modo di prima della malattia. Giocavamo insieme e in casa di nascosto facevamo dei tiri a pallone.”
Nel frattempo la terapia continua, Andrea è preoccupato di non riuscire ad affrontare l’esame di terza media e di perdere l’anno. Ma non è solo, il suo compagno di scuola Anin va a casa sua tutti i pomeriggi per giocare e studiare insieme. Sua cugina Stefania, invece, lo aiuta con le ripetizioni per rimanere al passo con la classe. Quando invece deve rimanere in ospedale, viene seguito da un gruppo di professoresse.
È così che, col passare del tempo, i medici diventano quasi una seconda famiglia. Lo accompagnano nel suo percorso di terapia, gli parlano in modo semplice cercando di coinvolgerlo, senza confonderlo e spaventarlo. “Bastava spiegarmi cosa stesse succedendo perché accettassi le cure. Sapevo che soltanto così sarei guarito”.
Dopo quattro mesi, nel gennaio del 1997, la terapia finisce, ma le notizie non sono buone. Andrea ha una ricaduta: “Ho parlato con i miei genitori e ho detto: basta, io mi fermo qua”. I genitori allora lo portano a parlare col direttore del reparto di oncologia pediatrica. “Appena mi ha salutato, le mie resistenze sono crollate. Con parole semplicissime mi ha raccontato quello che mi aspettava. Sono state la sua convinzione e tranquillità a darmi nuova fiducia”.
Andrea inizia un nuovo ciclo di chemioterapia associato alla radioterapia, non più a casa, ma in ospedale. E di questo lui è quasi felice, perché grazie alla continua assistenza soffre meno e la nausea è più attenuata. Dopo altri quattro mesi di cure, deve affrontare un’altra difficile prova. Dagli esami emergeva una piccola macchia nera e bisognava decidere se operare ancora. La decisione fu lasciata ai genitori.
Suo padre andò dal primario e gli chiese cosa avrebbe fatto se fosse stato suo figlio. Il medico gli rispose: “Posso soltanto consigliarle di non avere rimorsi in futuro. E se tra qualche anno ci pentissimo di non essere intervenuti?”.
È il primo luglio 1997, un anno dopo la prima operazione si tiene quella che sarà l’ultima. Da quella estate Andrea sarà di nuovo sul campo da calcio, senza avere più ricadute. “Il primo anno ho avuto difficoltà a riprendere a giocare a pallone, perché non riuscivo a correre e mi mancava il fiato. La ripresa è stata graduale, ma dopo qualche tempo ho recuperato la forma fisica. Oggi gioco di nuovo e, quando corro, non mi raggiunge nessuno”.
Andrea sostiene che la malattia lo ha reso più forte, ma è arrivato fin qui grazie anche alla costante vicinanza dei suoi genitori. “Mi ricordo la notte seguente la prima operazione. Era luglio, faceva molto caldo, e mio padre ha sventolato un giornaletto tutto il tempo per rinfrescarmi. Ogni volta che aprivo gli occhi, lo vedevo vicino”. Con il sostegno della famiglia e l’incoraggiamento dei medici non ha mai perso la speranza: “Mai darsi per vinti e perdersi nello sconforto. Bisogna affidarsi al 100 per cento ai medici e ai ricercatori, che fanno tutto il possibile per restituirci i nostri progetti, sogni. La nostra vita prima della malattia”.