La combattente che dopo essere sopravvissuta al cancro usa la donazione come strumento per annientarlo.
“Io sono una che combatte” dice, e si capisce da come lo dice che parla sul serio. “Anche quando mio padre si ammalò di cancro della prostata con metastasi ossee, mi diedi da fare per trovare ogni possibile terapia sperimentale”. Certo è anche grazie alla sua combattività se è sopravvissuta a due interventi per tumore al seno, e a una malattia rara per cui ha trascorso 20 giorni in coma e un lungo periodo paralizzata.
Oggi Maria Luisa, a distanza di tre anni da quell’angosciante episodio di paralisi con soffocamento causato da una grave forma di Sindrome di Guillain-Barré, ha riacquistato la piena autonomia e riesce a sorridere ripensando a quegli anni terribili: “Non mi sono fatta mancare niente” dice scherzando “due interventi, chemioterapia, radioterapia e poi paralisi e tracheotomia!”.
C’è voluto tutto il suo spirito combattivo per riprendersi, affrontando una lunga riabilitazione dopo la tracheotomia e la prolungata immobilità: “Alla fine del secondo mese avevo ancora le gambe paralizzate” ricorda. Con l’aiuto all’inizio del bastone, piano piano è riuscita a recuperare e, se è vero che ha dovuto rinunciare ai viaggi esotici come quelli che ha fatto per esempio in Cina, Nepal e India, oggi si sposta spesso tra l’Umbria, dove si è trasferita qualche anno fa, e Roma per seguire le sue passioni: l’arte, la musica e i mercatini di antiquariato. Ha continuato a fotografare con la sua reflex, con una piccola compatta e con il tablet: “Non amo fotografare le persone, forse perché non amo essere fotografata” spiega. “Preferisco i luoghi, i paesaggi e gli oggetti inanimati”.
Dopo la malattia si è riavvicinata alla religione: “Per il Giubileo breve del 2015 sono andata a Lourdes. Lì sono andata a confessarmi, dopo 45 anni che non lo facevo. Quel luogo mi ha colpito molto”.
La sua vita lavorativa è stata per circa vent’anni a contatto con sofferenza e malattia, ma da una prospettiva diversa. Lavorava come segretaria privata di un famoso neuropsichiatra: “La giornata lavorativa cominciava alle 9 del mattino e non si sapeva mai quando sarebbe finita”.
Oggi è convinta che sia stata proprio questa sua esperienza di anni di lavoro con i malati psichiatrici e i loro familiari a fortificarla e le abbia dato la capacità di affrontare le sue sofferenze con grande serenità e combattività.
Quando il neuropsichiatra andò in pensione, le fu suggerito di fare un concorso per un progetto del CNR, dove ha lavorato alcuni anni, entrando in contatto con i meccanismi che regolano i finanziamenti alla ricerca biomedica.
Quanto al suo rapporto con la donazione “è stato un modo per combattere la malattia” spiega. “La mia, quella di mio padre che non ce l’ha fatta, e quella di mio fratello che, grazie ai progressi della ricerca degli ultimi anni, ha potuto guarire senza dover fare interventi chirurgici né chemioterapia”. Maria Luisa abbraccia la filantropia per motivazioni personali, ma non solo: “Ho scelto di sostenere la ricerca perché ho la sensazione che le istituzioni non investano abbastanza”.
Le motivazioni delle sue scelte sono così forti da aver predisposto anche un lascito testamentario a favore di AIRC e di pensare alla ricerca anche nelle festività: “Da alcuni anni ho anche deciso che per Natale non avrei fatto più regali inutili né li avrei voluti per concentrare tutto in una somma da donare a sostegno della ricerca oncologica. Sapevo che all’inizio questa mia decisione non sarebbe stata capita da tutti, ma poi hanno compreso quanto sia importante per me sostenere una struttura solida e trasparente come AIRC, che per la selezione dei progetti adotta criteri rigorosi e che ha conquistato la mia fiducia”.