Marco, Paolo e Sergio sono tre fratelli che hanno concretizzato il desiderio della loro mamma di destinare alla ricerca sul cancro una parte delle sue risorse scegliendo di sostenere una borsa di studio intitolata ai genitori.
“Quando mamma è morta, nel 2018, abbiamo trovato tra le sue carte una lettera in cui, tra le altre cose, ci chiedeva che destinassimo anche alla ricerca sul cancro una parte delle risorse di cui disponeva. Sapevamo che lei e mio padre avevano dato in passato un contributo ad AIRC e ci è sembrato naturale continuare su questa strada.”
Marco, Sergio e Paolo sono tre fratelli.
Uno è preside nell’hinterland milanese, dove guida uno degli istituti più multietnici d’Italia, impegnato da anni in progetti di integrazione; l’altro è medico, ricercatore e professore universitario in una grande università romana; l’ultimo, ex programmatore, oggi è impegnato attivamente nel campo della cooperazione sociale.
Raccontano come il desiderio della loro mamma si sia concretizzato in una donazione in favore di una borsa biennale AIRC intitolata ai genitori. “Anche se è stata la mamma a chiederlo, abbiamo voluto intestarla a entrambi e siamo certi che anche lei avrebbe voluto così” dicono.
La “banalità” del bene
Quella di papà Mario e mamma Luisa è una storia come tante nell’Italia a cavallo delle guerre e poi del boom economico. Mario era entrato in banca da giovane con una qualifica da semplice impiegato. È qui che all’inizio degli anni Cinquanta conosce Luisa. Si sposano nel 1954 e, mentre lei sceglie di dedicarsi ai tre figli, Mario fa carriera diventando dirigente centrale di una grande banca lombarda a Milano. Attività che continuerà fino a pochi mesi prima di morire, a causa di un cancro, a 83 anni.
La famiglia intanto cresce.
“’Se volete entrare in banca, posso darvi una mano’, ci diceva a volte papà” racconta Sergio. “E, visto il suo ruolo, a quei tempi avrebbe potuto facilitarci senza troppe difficoltà. Tuttavia, abbiamo sempre declinato l’invito.”
I tre fratelli così prendono le proprie strade, apparentemente lontanissime, ma che, guardandole oggi, hanno una singolare caratteristica in comune: tutte le attività che svolgono prevedono un qualche tipo di impegno nel sociale.
“Forse c’è un’impronta di famiglia in questo” dice Paolo. “I nostri genitori, anche se non in modo diretto, ci hanno fatto capire che certi valori erano più importanti di altri.”
Niente di eclatante. “Non è che fossero intellettuali impegnati; hanno vissuto in modo semplice la loro vita.” Con le difficoltà che tutti hanno, i problemi sul lavoro, di salute, lo stesso rapporto con i figli nell’età del distacco. Ma senza mai perdere la coerenza con i loro principi. “Non potevano concepire l’idea di agire per ottenere un vantaggio per loro o di approfittare degli altri” precisa Sergio. “Mio padre era più riflessivo, attento alle problematiche sociali; mentre mia madre aveva una forma di generosità impulsiva, diretta. Ricordo che non molti anni fa, nel corso di un’emergenza legata all’arrivo di migranti, fu organizzata una raccolta di coperte e vestiti. Mia mamma, già anziana, fece raccogliere tutte le coperte che aveva in casa per inviarle ai bisognosi. A nulla valsero gli inviti a tenere qualcosa in più per lei o per qualche eventuale ospite. Era così, spontanea: il bene si fa senza pensarci su.”
Allo stesso modo, quando è arrivata l’indicazione di fare una donazione in favore della ricerca sul cancro, i tre fratelli non ci hanno pensato un attimo.
Riconoscenza
Marco, Sergio e Paolo nei mesi scorsi hanno anche conosciuto la giovane ricercatrice beneficiaria della borsa di studio istituita grazie alla loro donazione. Si chiama Rosa Pennisi, lavora all’Istituto europeo di oncologia a Milano e si occupa di studiare alcune caratteristiche genetiche che rendono il tumore alla vescica più aggressivo, nella speranza di identificare nuovi potenziali trattamenti.
“I risultati, però, non sono la cosa più importante” ci tiene a precisare Sergio. “La ricerca, anche quando non dà risultati immediatamente tangibili, produce sempre un qualche frutto. Indipendentemente che noi lo vediamo o no.”
“D’altra parte, devo dire che mi fa piacere vedere associato il nome dei miei genitori a qualcosa di buono, di bello, di utile. È una forma di riconoscenza dei loro confronti. Perché sono convinto che ci hanno dato tanto e questo è un modo di rendere loro giustizia.”