Non sono una di quelle persone che pensa che si nasca con la predestinazione a fare un particolare tipo di lavoro. Credo che le attitudini contino, ma altrettanto, se non più importanti, siano gli incontri, anche casuali, che si fanno lungo la propria strada. La mia storia in qualche modo lo dimostra.
Dopo la laurea in Biotecnologie all’Università di Ferrara, avevo deciso di studiare il cancro e la mia attenzione era caduta sul gruppo di ricerca di Giannino Del Sal all’Università di Trieste. Lo contattai e lui mi invitò per un colloquio. Non esagero se dico che quell’incontro ha cambiato la mia vita. L’approccio molto professionale alla ricerca, i colleghi, l’ambiente frizzante e poi il ruolo decisivo del professor Del Sal nel trasmettermi la passione per la ricerca sono stati decisivi: da lì ho capito che la ricerca sarebbe stata la mia vita.
Quello con Giannino del Sal è stato soltanto uno dei fortunati incontri della mia carriera da ricercatore. Se il mentore è quello che ti trasmette la passione, sono i colleghi quelli che ti insegnano a svolgere materialmente il lavoro. Io ho trovato colleghi bravissimi, da cui ho imparato la tecnica e il metodo di lavoro, ma anche la capacità di pormi le domande giuste. È un aspetto spesso sottovalutato, ma molti progetti di ricerca falliscono proprio perché si è fatta la domanda scientifica sbagliata, perché si è cercato, magari, di inseguire un grande traguardo che poi si è rivelato un miraggio. Con conseguenze enormi in termini di spreco di tempo per il ricercatore e di risorse economiche, che sono limitate e preziosissime. Spesso, invece, domande semplici, ma originali e contestualizzate, possono avere ricadute importantissime dal punto di vista scientifico e di impatto sulla vita dei pazienti.
Dopo molti anni a Trieste, nel 2015 ho deciso di uscire dalla mia “comfort zone” e affrontare una duplice sfida: fare un’esperienza all’estero e provare a guardare al cancro da un punto di vista diverso, focalizzandomi sulle cellule staminali. Ho fatto molti colloqui, finché mi sono imbattuto nella scuola politecnica di Losanna e sono rimasto folgorato. Una vera e propria città della ricerca con un’apertura internazionale che non mi aspettavo: era come essere nei migliori laboratori degli Stati Uniti ma a due passi da casa. A Losanna ho passato quattro anni di lavoro durissimo, ma è stata un’esperienza fantastica. Quante cose ho potuto imparare e portarmi dietro al rientro in Italia! Queste competenze preziose delineano oggi il mio profilo di professionista della ricerca oncologica.
Dopo quattro anni nella città svizzera, durante i quali è nato anche mio figlio, nel 2020 si è presentata la possibilità di tornare in Italia. Anche questa volta si è trattato di un incontro fortunato: quello con Fondazione AIRC. In realtà non era la prima volta che mi imbattevo in AIRC. Il laboratorio di Trieste in cui avevo conseguito il dottorato era fortemente sostenuto da AIRC ed ero già stato destinatario di una borsa FIRC subito dopo il dottorato. Nel 2020, dopo un processo di valutazione molto competitivo e trasparente, ho ottenuto invece un grant Start-Up di 5 anni che mi ha consentito di avviare un mio laboratorio. Oggi, a Trieste, il mio gruppo di ricerca è composto da tre ricercatori post-doc e due studentesse. Insieme cerchiamo di capire come una malattia metabolica molto diffusa, il cosiddetto fegato grasso o steatosi epatica non alcolica, possa portare allo sviluppo del cancro. Questa condizione non è necessariamente pericolosa ed è reversibile con l’adozione di abitudini e comportamenti soprattutto alimentari sani. Tuttavia, quando diventa cronica, può dare luogo a una malattia progressiva chiamata steatoepatite. È questa condizione che predispone al tumore al fegato e noi stiamo cercando di comprendere quali siano i meccanismi che lo rendono possibile.
A differenza di molti altri gruppi di ricerca che stanno studiando il fenomeno dal punto di vista metabolico, noi stiamo indagando questo legame dal punto di vista meccanico. Crediamo che la trasformazione fisica e l’irrigidimento del fegato causati dalla fibrosi che caratterizza la steatoepatite siano eventi chiave con cui si innescano i segnali che fanno ‘impazzire’ le cellule, facendole diventare tumorali.
Il nostro sogno è che, comprendendo questi meccanismi, si possa un giorno riuscire a mettere a punto un farmaco, una specie di vaccino, che, somministrato ai pazienti con steatoepatite e interferendo con questi meccanismi, prevenga la trasformazione tumorale.
Nato a Ragusa nel 1983, si è laureato in Biotecnologie all’Università di Ferrara e, successivamente, ha conseguito un dottorato di ricerca in Medicina Biomolecolare all’Università di Trieste. Dopo aver lavorato altri due anni come post-doc a Trieste, grazie a una borsa di studio FIRC, nel 2016 si è trasferito in Svizzera, presso la scuola politecnica di Losanna (EPFL). Nel 2020, grazie a un grant Start-Up di Fondazione AIRC, è tornato all’Università di Trieste, dove coordina un gruppo di ricerca e svolge attività didattica.
Giovanni Sorrentino
Università:
Università degli Studi di Trieste
Articolo pubblicato il:
18 febbraio 2022