Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Le polemiche intorno all'utilità dello screening mammografico non accennano a placarsi e nuovi studi escono praticamente ogni mese. Ogni donna dovrebbe essere informata nel dettaglio per prendere la decisione giusta e non farsi convincere da argomentazioni prive di basi scientifiche.
Mai come in questo preciso momento storico, lo screening mammografico, ovvero l'indicazione di sottoporsi a mammografia per ogni donna sopra i 45-50 anni (l'età dipende dalle politiche sanitarie dei diversi Paesi), è stato oggetto di polemiche. In Italia il dibattito è aperto da molti anni, sebbene solo recentemente abbia coinvolto anche il grande pubblico e le dirette interessate.
Ma le polemiche non sono un buon modo per fare chiarezza riguardo a un argomento controverso, soprattutto quando, come è accaduto da noi, in Italia, a esprimersi non sono gli esperti, ma uomini politici o personaggi famosi, ognuno sostenitore della propria tesi precostituita e incapace di fornire alle lettrici gli elementi scientifici su cui farsi davvero un'opinione.
Prevenire è meglio che curare: lo si dice sempre quando si parla di cancro ed è un'affermazione vera. Viene quindi spontaneo chiedersi: qual è il problema? Perché un esame che permette di diagnosticare in anticipo il cancro del seno è periodicamente messo in discussione? La risposta è complessa: innanzitutto è bene chiarire che un esame come la mammografia non previene in senso stretto la malattia (cioè non protegge dal tumore), ma consente di diagnosticarla in anticipo, di affrontarla con cure meno invasive e di ridurre la mortalità. Secondo alcuni sondaggi condotti in Italia, l'uso della parola prevenzione per indicare quella che in medicina si chiama prevenzione secondaria, ma che nel linguaggio comune sarebbe la diagnosi precoce, è una delle fonti di confusione per le donne che devono decidere se e come aderire a campagne di screening.
Inoltre la riduzione della mortalità è un elemento considerato dagli esperti assolutamente necessario per eleggere un test a screening. Anche in questo caso è bene utilizzare qualche parola in più per spiegare che uno screening è un esame consigliato a un gruppo preciso di persone, in genere sulla base di una caratteristica come l'età e il sesso, indipendentemente dalla storia personale o familiare. La mammografia è infatti uno screening perché tutte le donne nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni sono, in Italia, invitate a farlo.
Ciò non significa che non vi siano donne che hanno bisogno di fare la mammografia anche in età più giovanile, magari perché hanno familiarità con il cancro al seno oppure perché hanno una mammella con alcune caratteristiche particolari che, sulla base degli studi condotti finora, possono favorire la comparsa di un tumore. Nel loro caso non si parla di screening, perché non rientrano nella categoria generale, ma di esami diagnostici prescritti sulla base di caratteristiche individuali. Chi vuole eliminare lo screening mammografico non vuole affatto eliminare la mammografia dalla vita delle donne, ma vuole che questo test diagnostico sia prescritto a ciascuna sulla base delle caratteristiche individuali di rischio. Ciò significa che in alcuni casi si potrebbe iniziare anche prima di quanto previsto dallo screening e continuare anche dopo i 69 anni, mentre in altri casi la cadenza dello screening, attualmente biennale, potrebbe essere accorciata o allungata.
Torniamo sul concetto fondamentale di mortalità. Qualsiasi screening per essere approvato come tale deve dimostrare di ridurre la mortalità per la malattia, non solo di aumentare le diagnosi. Questo perché esistono forme tumorali a lentissima evoluzione (come alcuni carcinomi della prostata) e altre che addirittura non progrediscono (come la maggior parte dei carcinomi duttali in situ, la forma più frequentemente diagnosticata dalla mammografia).
È dei primi di luglio la pubblicazione, sulla rivista Jama Internal Medicine, di uno studio che ha fatto molto discutere e che ha analizzato gli effetti dello screening mammografico attraverso i registri tumore di 547 regioni degli Stati Uniti. Gli autori, oncologi ed epidemiologi dell'Università di Harvard e di Dartmouth, concludono che purtroppo l'effetto maggiormente visibile dello screening è la sovradiagnosi, cioè l'identificazione di tumori che non avrebbero procurato guai.
I loro dati dicono che tra i 16 milioni di donne che abitano le regioni esaminate vi sono stati 53.207 casi di cancro al seno nel 2000, il cui destino è stato seguito per i 10 anni successivi. Durante quel periodo circa il 15% è deceduto per cancro al seno e un altro 20% per altre cause. L'adesione allo screening variava, a seconda delle regioni, tra il 39 e il 78%. Gli autori scrivono di "non aver trovato alcuna correlazione tra la mortalità a 10 anni e l'esecuzione dello screening".
Per ogni aumento del 10% di adesioni allo screening l'incidenza (cioè il numero dei casi diagnosticati) di tumore al seno sale del 16%. In numeri assoluti significa che la mammografia ha "scovato" tra 35 e 49 nuovi casi di cancro ogni 100.000 donne. Come mai queste diagnosi precoci non si riflettono in un'aumentata sopravvivenza? Perché nella maggior parte dei casi si tratta di carcinomi in situ, la forma che nella maggioranza dei casi regredisce spontaneamente grazie ai meccanismi di difesa dell'organismo.
Tuttavia è bene ricordare che in alcuni casi (una netta minoranza) ciò non avviene e che la malattia può diffondersi e dare metastasi, ma non c'è modo di sapere in anticipo se e quando questo accadrà. Pertanto la maggior parte di donne con diagnosi di questo tipo decide comunque di farsi operare e di seguire le cure indicate per il cancro al seno, anche se diversi medici sostengono che si potrebbe evitare l'intervento e instaurare un protocollo di "vigile attesa", come viene chiamato in medicina: non si fa nulla ma si tiene d'occhio l'evoluzione del nodulo con mammografie molto ravvicinate.
E qui entra in gioco un secondo "effetto collaterale", se così si può chiamare, dello screening. Anche se la dose di raggi è molto bassa, la Cochrane Collaboration, uno degli enti di revisione della letteratura scientifica più accreditati al mondo, ha stimato che troppe mammografie possono costituire un fattore di rischio per via della dose di raggi assorbita. Per "troppe" si intende una cadenza annuale, magari fin da un'età giovanile (40 anni) e protratta oltre il limite raccomandato dei 69 anni, mentre non sembra esserci pericolo con le indicazioni attuali (una mammografia ogni due anni tra i 50 e i 69 anni). Il National Cancer Institute statunitense, che pure è favorevole allo screening, stima che ogni 1.000 donne che si sottopongono annualmente a mammografia ve ne potrebbe essere una che si ammala per via dell'irraggiamento. Per questa stessa ragione c'è in corso un aspro contrasto, negli Stati Uniti, tra l'American Cancer Society, che raccomanda lo screening annuale dai 40 anni, e la Prevention Task Force governativa, che invece prescrive la mammografia biennale tra i 50 e i 75 anni. Ciò che accade negli Stati Uniti è abbastanza indicativo di quanto sta accadendo a livello mondiale: in generale gli oncologi sono più favorevoli allo screening, perché vedono i singoli casi salvati dall'esame, mentre gli epidemiologi e gli esperti di politica sanitaria, che guardano i grandi numeri e hanno una visione d'insieme, si accorgono dei potenziali effetti negativi di questa pratica e tendono a essere più restrittivi. D'altronde le decisioni collettive, che coinvolgono la gestione della salute di un intero Paese, non possono essere prese sulla base dei singoli casi a cui è andata bene, ma devono essere prese proprio sui grandi numeri e sui risultati dei dati epidemiologici, anche perché, oltre agli aspetti sanitari, gli screening hanno dei costi molto elevati e il denaro investito in questi viene sottratto ad altre iniziative.
Lo schema decisionale preparato per le donne dal Centro programma screening del Canton Ticino (Svizzera). Rappresenta il destino di 1.000 donne che si sottopongono o che non si sottopongono allo screening mammografico biennale tra i 50 e i 60 anni. Per maggior completezza di informazione, lo stesso Centro svizzero stima che tra le 24 donne con diagnosi di tumore al seno, 4 siano sovradiagnosi (cioè tumori che non avrebbero avuto bisogno di cure o interventi). In tal modo la capacità "diagnostica" della mammografia viene ridimensionata, ma la tempestività della diagnosi spiega quella vita salvata in più nel gruppo con screening. Analisi condotte in altri Paesi (Svezia, USA) mostrano tassi di sovradiagnosi più elevati (tra il 2 e il 10%) e in alcuni casi non mostrano riduzione della mortalità, annullando quindi i benefici dello screening.
Qual è dunque l'indicazione più sensata per chi deve prendere una decisione? La maggior parte delle istituzioni serie che si occupano di screening sta producendo, proprio in questi mesi, una gran quantità di materiali informativi per le donne poiché, in una situazione di incertezza (peraltro comune in medicina), la decisione su cosa fare non può che basarsi su considerazioni personali quali il proprio approccio alla medicina, ai test e alla salute, la capacità di gestire diagnosi non chiare e una corretta previsione di ciò che si vorrebbe fare in caso di diagnosi di carcinoma duttale in situ.
Al momento la maggior parte degli esperti sostiene che vi siano ancora sufficienti prove di efficacia dello screening con cadenza biennale nella fascia di età dai 50 ai 75 anni. Questa è anche la posizione della maggior parte delle istituzioni europee, sebbene Svezia e Gran Bretagna stiano pensando di smantellare il sistema dello screening per passare a un sistema di diagnosi precoce su base individuale, dietro prescrizione del medico. Questa strategia, che potrebbe anche essere sensata, si scontra però con le abitudini delle diverse nazioni e con la consapevolezza (ancora molto bassa in certe Regioni d'Italia) che bisogna prendersi cura di sé con regolari visite mediche anche se nessuna ASL manda a casa la lettera di richiamo, come accade invece con gli screening.
Gli studi sugli effetti negativi dell'irraggiamento da mammografia invitano anche a stare attenti a dove si fa l'esame: centri specializzati, che utilizzino macchinari nuovi (e quindi dosi di radiazioni più basse) e che abbiano medici in grado di leggere un gran numero di mammografie l'anno (un requisito fondamentale per ridurre il numero di sovradiagnosi o errori diagnostici) offrono le migliori garanzie di sicurezza e serietà. Il consiglio è quindi di sottoporsi tranquillamente allo screening mammografico secondo le norme italiane (che verranno modificate solo se, nei prossimi anni, dovessero uscire studi che chiariscano i dubbi ancora aperti) ma stando attente a scegliere il centro diagnostico giusto, perché non sono tutti equivalenti.
Daniela Ovadia