Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
I messaggi circa il consumo di carne sono discordanti. La verità è che bisogna considerare diversi aspetti: da un lato la prevenzione dei tumori, ma dall'altro anche le malattie vascolari e, per un quadro generale, anche le questioni di tipo economico e sociale.
Mangiare troppa carne fa male. Se questo è ormai un dato scientifico assodato, vi sono però molti dubbi su cosa intendiamo per "troppa" e, soprattutto, che cosa davvero è possibile prevenire, in termini di malattie, evitando un eccesso di proteine di origine animale.
"Gli studi in merito non sono conclusivi, almeno per quel che riguarda il cancro" spiega Carlo La Vecchia, dell'Istituto Mario Negri di Milano, scienziato coinvolto nella maggior parte dei grandi studi epidemiologici sulle abitudini alimentari e il rischio di malattia, primo tra tutti il ben noto studio EPIC, cofinanziato anche da AIRC, che ha fotografato le abitudini degli europei a tavola. "Per alcuni tumori sembra infatti possibile dire che esiste un nesso diretto tra consumo di carne e malattia, mentre per altri il nesso è molto più labile, se non inesistente, allo stato attuale delle conoscenze".
Le ragioni per ridurre il consumo di carne non sono però legate esclusivamente al cancro ma anche ad altre considerazioni che riguardano l'impatto della produzione di questo alimento sull'ambiente e sull'economia: non si tratta però di argomenti legati direttamente al rischio tumorale. E c'è di più.
Non dimentichiamoci che un'alimentazione povera di proteine e grassi animali ha un effetto benefico soprattutto a livello cardiovascolare" spiega ancora La Vecchia "E infarti e ictus uccidono quanto e più dei tumori".
Che cosa possiamo dedurre, a rigore di studi, sulla relazione tra consumo di carne e cancro?
La comunità scientifica internazionale è ormai concorde sul fatto che alcuni aspetti della dieta occidentale, in particolare il consumo di carne rossa, salumi e insaccati, rappresentino fattori di aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali.
Una metanalisi (cioè uno studio che raggruppa all'interno di un'unica valutazione statistica i risultati di ricerche differenti, sommandone il potere predittivo) condotta da Teresa Norat dello IARC di Lione (il maggiore ente di ricerca sul cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità) ha dimostrato che un elevato consumo di carne, soprattutto se conservata, e una dieta con alte concentrazioni di grassi di origine animale (come quelli che si trovano nella carne) aumentano il rischio di insorgenza di tumori al colon-retto. Altri studi, invece, non hanno osservato alcuna relazione tra il consumo di pollame (cioè di carne bianca) e pesce e le malattie tumorali dell'intestino. Ciò significa che sono le carni rosse le principali indiziate, almeno per quel che riguarda questo tipo di tumore.
Altri scienziati hanno notato che il consumo elevato di carne rossa e di prodotti di origine animale è correlato allo sviluppo del tumore alla prostata. Infine, uno studio di Dominique Michaud e collaboratori del National Cancer Institute statunitense mostra come un'elevata quantità di carne nella dieta rappresenti un fattore di rischio per i tumori al pancreas.
"Questi singoli studi che pongono il consumo di carne in relazione con specifici tumori e non con altri non sono però un via libera al consumo di carne a pranzo e cena" spiega ancora La Vecchia. "Anche perché esiste una correlazione inversa tra consumo di alimenti di origine animale e quelli di origine vegetale: significa che chi mangia tanta carne in genere consuma poca frutta e verdura, e su questo punto esistono invece prove di una relazione diretta tra alimentazione e cancro".
In sostanza i vegetali hanno un'azione protettiva più ad ampio raggio, mentre le fibre aiutano a prevenire il cancro del colon-retto e quindi vanno privilegiate nella composizione dei pasti.
È ancora aperta la discussione su che cosa esattamente, nella carne, potrebbe favorire la comparsa di tumori e gli accusati sono molti: da un lato sicuramente i conservanti (che sono contenuti soprattutto nei salumi), dall'altro gli stessi processi di decomposizione della carne animale nel sistema digerente, che libererebbero sostanze dall'azione proinfiammatoria. Infine è noto che alcune sostanze prodotte dalla combustione diretta della carne sul fuoco (la tipica crosta bruciata dovuta alla caramellizzazione degli zuccheri contenuti naturalmente in qualsiasi pezzo di carne) hanno un'azione procancerosa, anche se solo a concentrazioni estremamente elevate.
"Gli uomini sono comunque degli animali onnivori" ricorda La Vecchia. "Di conseguenza abbiamo tutte le risorse biologiche per consumare in sicurezza anche la carne, ma non dobbiamo esagerare".
Quali indicazioni pratiche dare, quindi? Le differenti piramidi alimentari stilate dagli istituti di nutrizione tengono conto anche delle abitudini delle diverse popolazioni, ma comunque raramente si discostano dalla media di tre-quattro porzioni di carne la settimana, divisa equamente tra carne rossa e pollame. A queste andrebbero aggiunte almeno un paio di porzioni la settimana di pesce e, per il resto, bisognerebbe comporre pasti con carboidrati, vegetali, latticini e proteine di origine vegetale come quelle contenute nei legumi.
Tra le considerazioni legittime, nel momento in cui si decide quanta carne consumare, possono rientrare anche quelle sociali ed economiche. È quindi giusto sapere che un terzo della produzione agricola mondiale è destinata a nutrire gli animali che a loro volta saranno usati per l'alimentazione umana.
Per ottenere un chilo di carne sono infatti necessari 13 chili di mangimi (per lo più cereali) nel caso della carne bovina e circa tre chili per il pollame, mentre la stessa superficie agricola potrebbe produrre cereali in grado di sfamare molte persone. Lo stesso problema, in termini di consumi, si verifica per l'acqua destinata all'allevamento.
La produzione di foraggio per uso animale risulta economicamente vantaggiosa per molti piccoli agricoltori. Per questo le istituzioni mondiali, dalla FAO alla Banca Mondiale, stanno promuovendo progetti che favoriscono la riconversione delle produzioni agricole.
Daniela Ovadia