Ultimo aggiornamento: 26 aprile 2021
Ricercatori di tutto il mondo stanno compiendo passi in avanti per identificare i fattori che influenzano il successo dell’immunoterapia, per un trattamento sempre più efficace e “su misura”.
L’immunoterapia basata sugli inibitori dei checkpoint immunitari come PD-1 e PD-L1 ha senza dubbio rivoluzionato il trattamento di alcuni tumori prima incurabili ed è diventata uno dei pilastri dell’innovazione per la terapia del cancro. Nonostante i grandi successi ottenuti, resta però il fatto che il trattamento con questi farmaci funziona non in tutti i pazienti, ma in meno della metà.
Per questo l’interesse dei ricercatori si sta concentrando sempre di più sull’identificazione dei fattori che possano predire la risposta del paziente all’immunoterapia, e sull’aumentare l’efficacia del trattamento. L’interesse è dimostrato da numerose recenti pubblicazioni che riguardano diversi tipi di cancro e diversi approcci al problema.
Alcuni potenziali fattori capaci di influenzare la risposta all’immunoterapia sono stati già identificati. Tra questi vi sono il livello di espressione del gene PD-L1; il cosiddetto carico mutazionale del tumore (tumor mutational burden, TMB) ovvero la quantità di mutazioni acquisite presenti nelle cellule tumorali; e inoltre un particolare tipo di instabilità del patrimonio genetico, detta instabilità dei microsatelliti.
Ma le variabili da considerare sono molte di più. Un recente studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, ha mostrato per esempio che nel caso del carcinoma epatocellulare è importante tener conto dell’origine della malattia. Studiando la malattia in animali di laboratorio, infatti, i ricercatori hanno osservato che, se alla base del tumore c’è la cosiddetta steatoepatite non alcolica (NASH) – un accumulo di grasso nel fegato –, l’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint non solo non funziona ma rischia di favorire la progressione del tumore. Il dato è stato confermato anche da alcune osservazioni preliminari negli esseri umani ed è importante perché la NASH è una malattia sempre più comune, in particolare nelle persone che non adottano abitudini e comportamenti salutari.
Un altro studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista OncoTarget, si è invece concentrato sul carcinoma a cellule di Merkel, dimostrando che per esempio il carico mutazionale totale del tumore non sembra avere un ruolo nel determinarne la risposta all’immunoterapia, a differenza della presenza di alterazioni in alcuni geni (ARID2 e NTRK1), che potrebbero anche diventare nuovi bersagli per terapie mirate contro questo tumore.
Anche il microbiota, la comunità formata da trilioni di microbi presente nel nostro organismo, può avere un ruolo nel modulare la risposta del sistema immunitario contro il tumore.
Uno studio i cui risultati sono stati da poco pubblicati su Nature, basato sull’analisi del melanoma metastatico, mostra infatti che alcune proteine di questi microbi vengono “esposte” sulla superficie delle cellule tumorali e potrebbero aumentare e rendere più precise le risposte immunitarie (e l’efficacia dell’immunoterapia), facendo sì che le cellule del tumore diventino più “visibili” alle nostre cellule di difesa.
Il ruolo del microbiota nella risposta ai farmaci antitumorali è al centro dell’attenzione della comunità scientifica, come si legge in un articolo pubblicato su Nature Reviews Immunology, nel quale sei grandi esperti del settore sono stati chiamati a esprimere la propria opinione sul tema e sulle sfide che presenta.
Già nel 2013 alcuni studi avevano dimostrato, per esempio, che una riduzione del microbiota poteva compromettere la risposta a chemio- e immunoterapia. “Questi studi ci hanno fatto capire che gli antibiotici devono essere utilizzati con grande attenzione nei pazienti oncologici. Ciascuno di essi può influenzare infatti in modo specifico l’immunoterapia, anche se ancora non sappiamo esattamente come” spiega Brett Finlay, professore alla University of British Columbia, uno degli esperti intervistati nell’articolo pubblicato su Nature Reviews Immunology. “Una volta definiti i microrganismi coinvolti nell’immunoterapia potremo usare gli antibiotici in modo più mirato” aggiunge. Anche modificare la composizione del microbiota (per esempio attraverso la dieta) potrebbe rivelarsi una strategia vincente per migliorare le risposte all’immunoterapia.
Agenzia Zoe