Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Invadono gli scaffali dei supermercati, vengono offerti in bar salutistici e palestre: i super cibi sembrano la panacea di tutti i mali, ma servono davvero?
Le tavole variegate e coloratissime, ricche di cibi di origine vegetale e a basso apporto calorico appartengono troppo spesso a un mondo ideale. Nella realtà mangiamo in modo distratto e frettoloso e cerchiamo soluzioni poco impegnative a una dieta scorretta. È questa la principale ragione (oltre ad attente campagne di marketing) che giustifica il successo dei superfood, i super cibi. Curcuma, zenzero, semi di chia, avocado, melograno, ma anche bacche di Goji, noni, açaí, maqui. “Sono queste le superstar del momento nel campo dell’alimentazione” spiega Renato Bruni, professore associato di botanica e biologia farmaceutica presso il Dipartimento di scienze degli alimenti dell’Università di Parma. “Ma si tratta di un’abile attività di marketing: basti pensare che del termine ‘superfrutto’ non esiste neppure una definizione scientifica. Questi alimenti hanno in comune alcune caratteristiche come l’essere esotici, nuovi o, come il melograno, riscoperti di recente, costosi e non indispensabili, perché i micronutrienti che contengono non mancano affatto nella nostra dieta.” Di indubbio successo commerciale, i superfood si trovano in varie forme: essiccati, in succhi o estratti, e persino in pillole, come integratori. Promettono (senza grandi prove a sostegno) di prevenire e curare condizioni diversissime tra loro, dalla gotta alla cistite, dai tumori all’alta pressione arteriosa.
Abili operazioni di marketing non sono una novità, come ci ricorda il successo di Braccio di Ferro e dei suoi spinaci in scatola: il personaggio fu creato su sollecitazione dell’industria di produttori per rendere attraenti questi ortaggi che contengono sì ferro ma in quantità modeste. Nel caso dei superfood, però, sull’incerto equilibrio tra le esigenze di mercato e prove scientifiche intervengono gli stessi ricercatori che spesso, secondo l’opinione di Bruni, “assecondano e alimentano le mode per dare più peso ai propri risultati di laboratorio”. In sostanza, chi lavora in laboratorio e trova un principio attivo di origine alimentare che può favorire determinati meccanismi di protezione della cellula ha più facilità a comunicare il proprio lavoro (e talvolta a sfruttarlo commercialmente) se può dire che esiste un alimento che ha le medesime proprietà, anche se nulla dimostra che gli effetti siano gli stessi in vivo e in vitro.
La narrazione dei superfood fa leva sul potere che deriverebbe loro da molecole e micronutrienti che, invece, si trovano anche in alimenti molto comuni. “Della bacca di açaí (Euterpe oleracea), palma esotica dell’America centromeridionale, si lodano le proprietà antiossidanti garantite dal contenuto di polifenoli” spiega Bruni. “Da optional gradevole ne abbiamo fatto una panacea antistress, energizzante e addirittura dimagrante, dimenticando che gli stessi nutrienti si trovano nei comuni mirtilli.” La vicenda della curcuma, icona antinfiammatoria le cui vendite sono alle stelle nonostante la scarsa biodisponibilità della curcumina (cioè la scarsa capacità del principio attivo di agire all’interno dell’organismo umano), insegna che un “supercibo” miracoloso può scaturire anche dalle ricerche scientifiche. “Bisogna diffidare di affermazioni generiche prive di dati numerici” è il consiglio di Bruni.
Dei superfood, infatti, non ci è dato sapere quali effetti otterranno e con quale probabilità, “semplicemente perché gli studi non esistono e quelli che stabiliscono la generica superiorità di una bacca rispetto al placebo stanno solo dicendo che quella bacca è ‘meglio di niente’”.
Qual è, quindi, il ruolo della ricerca sugli aspetti molecolari della nutrizione? Grazie a studi condotti in vitro o in vivo su animali è possibile analizzare gli effetti sulle singole molecole e sulle relative funzioni cellulari. A questi, si aggiungono gli studi di intervento nutrizionale, per una valutazione degli effetti di un determinato cibo nella riduzione del rischio di sviluppare una malattia nella vita reale. Ma c’è di più, come spiega Antonio Moschetta, professore di medicina interna all’Università di Bari e studioso di nutrigenomica, la disciplina che valuta gli effetti delle diete sul funzionamento del genoma.
“Sappiamo che un certo nutriente può avere difficoltà a interagire con il genoma di un soggetto obeso. Quindi le proprietà dei cibi e la loro capacità di modulare l’espressione dei geni dipendono in parte da proprietà intrinseche e in parte dallo stato di salute della persona che li consuma” spiega Moschetta. “Ai blocchi di partenza siamo tutti diversi, e ognuno di noi deve conoscere la propria condizione per arrivare a interventi alimentari mirati.” Ricordando che “consumare frullati di curcuma e bacche di Goji non ha alcun senso se ci abbuffiamo di pizza, gelati e alcolici; solo attraverso una dieta varia e salutare e un corretto stile di vita riusciamo a mettere il nostro organismo in condizione di ricavare il meglio dagli alimenti che assumiamo”.
Nicla Panciera