Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
La ricerca di metodi alternativi all'uso di animali si muove su due filoni principali: la ricostruzione di organi in laboratorio e l'uso dei computer. Tuttavia, nessuno è sufficientemente affidabile da permettere l’abbandono della sperimentazione animale.
"I metodi allo studio per sostituire gli animali nella sperimentazione scientifica andrebbero considerati complementari più che alternativi". Così si esprime Thomas Hartung, ex direttore dello European Union Reference Laboratory for alternatives to animal testing (EURL-ECVAM), il centro europeo con sede a Ispra che deve verificare lo stato dell'arte della sperimentazione animale, e attuale direttore del Center for Alternatives to Animal Testing (CAAT) della John Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti.
Hartung, con altri esperti, ha animato una giornata di confronto sui metodi alternativi alla sperimentazione animale organizzata il 18 maggio scorso dall'Istituto Mario Negri di Milano. La scelta del tema è stata tutt'altro che casuale: chi si oppone all'uso degli animali nella ricerca medica e scientifica, in particolare in Italia, sostiene che esistano tecnologie alternative in grado di dare risultati altrettanto affidabili. Ma è così?
La risposta più corretta è proprio quella che dà Hartung, ricercatore che ha dedicato l'intera vita allo studio di tecnologie che possano risparmiare gli animali senza nulla togliere in sicurezza ed efficacia alle cure per gli umani.
"È importante chiarire fin dall'inizio che nei centri di ricerca più seri, come quelli nei quali ho lavorato io, si cercano metodologie che possano, un giorno, fornirci risultati altrettanto certi, se non ancora più certi di quelli della ricerca animale. Nel frattempo, però, dobbiamo dire con fermezza che queste alternative non esistono ancora. Vi sono alcuni filoni di ricerca interessanti, che meritano di essere approfonditi, ma non abbiamo ancora trovato il modo di sostituire un organismo intero, con tutte le sue interazioni e complessità, con un modello creato in laboratorio".
Ascoltando Hartung si capisce quindi che sono i ricercatori stessi (e persino le industrie) a spingere per fare ricerca in questo settore: a nessuno piace dover testare un nuovo farmaco su un animale, sia per ragioni etiche sia per una questione di costi, piuttosto elevati, ma al momento sono pochissimi i sistemi sostitutivi approvati, alcuni dei quali sono elencati in un'apposita tabella pubblicata sul sito del Centro di referenza nazionale metodi alternativi, benessere e cura degli animali, presso l'Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell'Emilia Romagna. Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di sistemi alternativi alla sperimentazione animale per valutare l'irritazione cutanea e oculare delle sostanze, ovvero utili soprattutto nel campo della cosmetica più che della ricerca medica. "Non è un caso che si tratti dell'aspetto più semplice della tossicologia, ovvero dei possibili effetti sulla pelle o sugli occhi, che dipendono in gran parte della struttura chimico-fisica dei prodotti, fattori che conosciamo molto bene anche prima di cominciare il test" spiega Maura Ferrari, responsabile del Centro. "Non appena dobbiamo studiare gli effetti di una sostanza in situazioni più complicate, dobbiamo tornare a usare gli animali".
Con le nuove normative europee in materia di sperimentazione animale sono stati decisi anche finanziamenti per la ricerca dei cosiddetti metodi alternativi: al momento si contano investimenti per circa mezzo miliardo di euro l'anno, che però stanno dando risultati meno brillanti di quelli attesi. "C'è un problema di fondo che appare al momento insormontabile: quello della complessità dell'organismo nel suo insieme" spiega Ferrari. "Secondo l'ECVAM, non più del 20% delle sperimentazioni su animali è sostituibile con metodi alternativi e con un sufficiente margine di sicurezza".
Cosa vuol dire che il metodo alternativo deve essere sicuro? Significa che i suoi risultati devono essere attendibili almeno quanto quelli del sistema di riferimento, che rimane la sperimentazione nell'animale. "Secondo i dati raccolti recentemente in un database internazionale chiamato REACH e prodotto da ECVAM per raggruppare tutti gli studi relativi alla tossicità di una sostanza, l'attendibilità della sperimentazione animale si aggira intorno all'85-90%. Ciò significa che, su 10 esperimenti, nove daranno risultati attendibili" spiega Hartung. "Può sembrare poco, ma in realtà è un livello di attendibilità molto alto in medicina, dove ovviamente dobbiamo tener conto del fatto che gli organismi viventi non sono mai perfettamente uguali come possono esserlo le macchine. Il problema è che proprio per via di questa variabilità che impedisce di raggiungere un risultato certo al 100%, i metodi considerati alternativi forniscono risultati ancora meno attendibili. Non riusciamo a creare modelli artificiali di un organismo che siano al tempo stesso complessi e flessibili, come sono gli esseri viventi". E infatti, benché diversi modelli sperimentali siano stati pubblicati su riviste scientifiche, sono pochissimi quelli che hanno passato l'esame di validazione, cioè che sono stati effettivamente autorizzati nella pratica.
Gli scienziati, nel tentativo di trovare alternative agli animali, si muovono su due grandi filoni di studio.
Il primo prevede la creazione di organi artificiali (i cosiddetti organoidi) che, sebbene non abbiano la complessità dell'organismo in toto, sono comunque utili per capire gli effetti di una sostanza sull'eventuale organo bersaglio. "Prendiamo per esempio il cervello" spiega Hartung che lavora proprio sulla creazione di mini cervelli. "Se vogliamo capire gli effetti di un farmaco su questa parte così importante del corpo, non possiamo limitarci a studiare in vitro la sostanza su uno strato di neuroni, perché nel cervello ci sono anche altre cellule e altri tessuti, oltre a quello nervoso in senso stretto. Inoltre i diversi tipi di cellule dialogano tra loro e il farmaco potrebbe interferire con questo processo. Un test in vitro non sarebbe in grado di scoprirlo.
Ecco perché Hartung ha messo a punto, e pubblicato sulla rivista Nature nel 2013, una tecnica per produrre minuscole sfere di tessuto che contengono tutti gli elementi cellulari del cervello. I suoi "mini cervelli" sono già utilizzati in sperimentazione e sono utili soprattutto perché permettono di testare una sostanza su un gran numero di campioni (evitando di dover ricorrere a molti esemplari di animali da laboratorio) ma ancora non sono abbastanza sicuri e precisi da poter essere usati in tutte le ricerche per le quali è necessario studiare un cervello in un organismo intero.
Il secondo filone di studio riguarda i cosiddetti modelli in silico, cioè modelli computerizzati di processi metabolici o banche dati di sostanze chimiche che possono dare informazioni preliminari sulla tossicità di una sostanza. Ne ha parlato a Milano Emilio Benfenati, dell'Istituto Mario Negri, coinvolto nel progetto PROSIL, un progetto europeo che mira proprio allo sviluppo di modelli computerizzati per prevedere la tossicità. "Per ora questi sistemi sono utilissimi per classificare le sostanze in probabilmente innocue o probabilmente tossiche, sulla base delle loro caratteristiche chimiche e fisiche" spiega Benfenati. "Questo permette di ridurre gli animali coinvolti nello studio di un nuovo farmaco, ma certo non basta per eliminarli del tutto". I computer, però, hanno qualche vantaggio rispetto agli animali: per esempio, sono in grado di "imparare" da precedenti risultati e utilizzare i risultati scientifici per migliorare le capacità predittive su nuove sostanze. Un altro vantaggio è quello temporale: i computer analizzano molte sostanze in poco tempo. Ma talvolta danno risultati fuorvianti: "Se una sostanza risulta tossica nella metà dei casi non posso studiarla col computer, perché verrebbe classificata comunque come tale, anche se nella realtà può essere innocua in un caso su due".
Ora i ricercatori stanno cercando di cambiare strategia: invece di costruire programmi che selezionano le sostanze sulla base delle caratteristiche chimico-fisiche, cercano di lavorare su software che mimino possibili meccanismi d'azione. È un passo avanti nella ricostruzione virtuale della complessità di un organismo vivente, ma siamo ancora ben lontani dal risultato necessario.
In sostanza, la ricerca sui cosiddetti metodi alternativi ha dimostrato che sono certamente utili, per esempio per diminuire il numero di animali usati in laboratorio, ma non risolutivi. Gli investimenti nel settore stanno crescendo, anche perché si spera di ottenere, un giorno, non solo una soluzione ai problemi etici ma anche a quelli economici legati all'uso di animali, con in più una migliore attendibilità dei testi. Un traguardo che per ora appare non ancora lontano.
L'industria chimica è sottoposta a norme che prevedono l'utilizzo di animali per dimostrare che le sostanze prodotte non sono pericolose per l'uomo. L'Europa si è dotata di un regolamento comune, chiamato REACH che, tra le altre cose, vuole migliorare la conoscenza sulla pericolosità delle sostanze chimiche riducendo la sperimentazione sugli animali. Il primo passo importante è stato la creazione di un database (chiamato REACH come la norma) nel quale le industrie depositano i protocolli e i risultati di tutte le sperimentazioni effettuate sugli animali per una determinata sostanza. In questo modo si è scoperto che alcune sostanze sono state testate più e più volte, solo perché un'industria non era a conoscenza del fatto che un'altra aveva già condototto la stessa sperimentazione.
Grazie alla banca dati, ora chiunque può sapere se l'analisi di tossicità di un composto è già stata effettuata e con quale esito. È possibile anche sapere se qualcuno ha condotto studi specifici, per esempio nel campo della cancerogenicità, e mettere insieme le informazioni provenienti da fonti diverse.
Daniela Ovadia