Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Gli hospice, reparti specializzati per la terapia del dolore e dei pazienti terminali, sono oggi parte integrante di un sistema complesso, che punta a migliorare la qualità di vita dei malati e a valorizzarne la dignità, grazie a un approccio multidisciplinare che comprende anche la ricerca su questa fase della vita.
Luogo di ricovero per le persone malate, finalizzato a offrire le migliori cure palliative, quando non possono essere attuate le cure a domicilio, e di accoglienza anche per i loro familiari: questa è una delle possibili definizioni del termine hospice, strutture spesso (ma non sempre) inserite all'interno degli ospedali e dedicate a chi è affetto da una malattia che richiede terapie intensive ma non più risolutive. "È importante sottolineare che quando si parla di hospice non si parla necessariamente di cancro, ma anche di tutte le altre malattie in fase terminale" spiega Augusto Caraceni, direttore della Struttura complessa di cure palliative, terapia del dolore e riabilitazione dell'Istituto nazionale tumori di Milano, che poi aggiunge: "Per quanto riguarda l'oncologia possiamo dire che l'hospice rappresenta un momento spesso finale di un progetto più ampio: le cure palliative come affiancamento delle cure attive della malattia avanzata metastatica, che può durare anche tempi molto lunghi".
L'essenza delle cure palliative, e dell'hospice in particolare, è il frutto del rispetto e dell'attenzione verso l'essere umano sofferente. Spiega Caraceni: "È molto importante ricordare che tali strutture rientrano a pieno titolo nell'ambito delle cure palliative, un sistema complesso che ha come finalità la lotta farmacologica al dolore, ma anche il miglioramento della qualità di vita e delle condizioni fisiche e psicologiche del malato e la presa in carico degli aspetti emozionali, spirituali, sociali e personali della malattia. In questo senso, l'hospice può essere utile quando si deve migliorare la cura dei sintomi o quando si entra nella fase terminale, ma non è detto che sia il luogo dove si muore". Come ricorda il medico, infatti, alcuni pazienti riprendono il proprio iter terapeutico, altri tornano a casa (quasi sempre con un atteggiamento diverso rispetto alla propria situazione) e solo una parte termina in hospice il proprio percorso.
Ovviamente non in tutti gli ospedali sono presenti hospice, che, per essere accreditati, devono garantire un'assistenza alberghiera per il malato e per un familiare, che quasi sempre alloggia nella stessa stanza. Nella maggior parte dei casi la permanenza dura un paio di settimane, salvo situazioni specifiche. "Qui nell'hospice l'organizzazione ruota attorno alla persona malata e non alla malattia, contro la quale, di solito, si può fare poco se non migliorare - a volte in maniera decisamente significativa - la qualità di vita del paziente alleviando il dolore e altri sintomi" afferma Caraceni. Ogni essere umano è però molto più di un malato e di tutto quello che egli racchiude e rappresenta si tiene conto in questi luoghi. Ciò che fa la differenza, e che conferisce all'hospice un ruolo molto importante, è che tutta la struttura è stata pensata così, con il malato e la sua famiglia al centro dell'attenzione, a differenza dei reparti ospedalieri più classici che hanno altre priorità.
Integrare le cure palliative da subito nel programma di cura conviene a tutti: malati, professionisti e finanze della sanità. "L'idea dell'hospice come parte integrante delle cure palliative - presenti in tutte le fasi della malattia - è importante perché se il paziente incontra gli specialisti di questo settore in un periodo precedente all'hospice, la transizione alle fasi più avanzate è più progressiva e si evita la percezione di essere stato abbandonato dagli oncologi, concepiti come gli unici in grado di prendersi davvero cura del malato" precisa Caraceni. Lo dimostrano anche due studi, pubblicati quasi contemporaneamente, dai quali emerge un miglioramento complessivo della gestione della malattia nei casi in cui la terapia del dolore e degli altri sintomi, e l'eventuale ingresso in hospice, sono parte integrante delle cure fin dai primi istanti.
Nel primo studio, i palliativisti del Duke University Hospital hanno valutato gli effetti dell'inserimento delle cure palliative negli iter terapeutici di oltre 2.300 pazienti. Chiari i risultati: ci sono state riduzioni nel numero di pazienti che soo dovuti tornare in ospedale entro una settimana dalla dimissione, di quelli che hanno avuto bisogno di un trasferimento in terapia intensiva, del tempo necessario per la dimissione dopo una cura e, contemporaneamente,un aumento del trasferimento in hospice, a dimostrazione del fatto che spesso queste strutture non sono sfruttate appieno, secondo tutte le loro potenzialità. Nel secondo, svolto dai ricercatori del Center for Hospice and Palliative Care di Cheektowaga (New York), sono stati messi a confronto i costi e i tempi di dimissione di due tipi di malati: in un caso trattati contemporaneamente fin da subito da oncologi e palliativisti, nell'altro no. Si è visto che per i primi scendono i costi e si abbassano le percentuali di coloro che hanno bisogno di più ricoveri. "È anche un discorso di salute pubblica: attraverso le cure palliative e le strutture dedicate, si realizza una migliore organizzazione dell'assistenza, con la giusta ripartizione tra cure territoriali, domiciliari, ambulatoriali e ospedaliere. Molti studi hanno mostrato che laddove il sistema delle cure palliative e degli hospice funziona ed è integrato con quello ospedaliero, non solo i malati vengono curati meglio, ma si riducono le spese, per un aumento dell'efficienza di tutto il sistema" chiarisce l'esperto milanese.
Come avviene la presa in carico del malato da parte del team dell'hospice, che è sempre multidisciplinare? Risponde Caraceni: "Innanzitutto si attua una valutazione multidimensionale, che comprende cioè tutti gli aspetti clinici (per esempio, oltre al dolore, le difficoltà respiratorie, la confusione mentale, l'indebolimento e così via), ma anche quelli psicosociali, e si mettono a fuoco i bisogni". Prosegue poi l'esperto: "Per fornire un intervento davvero completo si organizzano incontri settimanali di valutazione dei singoli casi, ai quali partecipano, oltre ai medici, anche gli infermieri, che riescono a recepire bisogni diversi da quelli intercettati dagli specialisti, e poi un filosofo, con cui il paziente può discutere delle questioni esistenziali cui deve far fronte (si pensi, per esempio, a quando ci sono figli minori, o quando si lascia un coniuge anziano e a sua volta non in buona salute) e uno psicologo". Queste figure, che affiancano il medico, sono fondamentali anche perché molto spesso i pazienti e le loro famiglie hanno bisogno di qualcuno che "non indossi il camice bianco" con il quale aprirsi e parlare di temi particolarmente delicati. Tutto ciò permette, tenendo conto anche della situazione familiare e sociale, di modulare un intervento a tutto tondo e davvero personalizzato.
Resta poi da valutare il capitolo della comunicazione. "È meglio che il passaggio tra le cure oncologiche e le cure palliative non sia brusco" ribadisce Caraceni, "e ciò diventa possibile se la comunicazione rispetto alla malattia e alle sue fasi, al vero significato che le cure oncologiche hanno nelle fasi avanzate, diviene più aperta, più trasparente, più condivisa". Ecco allora che diventa indispensabile che nei reparti dove si effettuano le cure oncologiche si lavori di più in termini di comunicazione: "Il paziente si sente alleato dell'oncologo nella lotta ma lo può essere se ha una percezione realistica della situazione" dice l'esperto, che sottolinea come una comunicazione sincera e completa non sia in contrapposizione con la speranza. La speranza non è solo quella di guarire. Ci sono diversi livelli di speranza che si possono sostenere" afferma. "Si deve 'giocare lealmente' come dicono gli inglesi, anche perché, in base alle statistiche, la percentuale di pazienti che non vuole sapere quale sarà il suo destino arriva solo al 20 per cento. Anche questi vanno rispettati e bisogna trovare per loro un modo diverso di rapportarsi".
Per sottolineare ancora una volta come gli hospice non siano solo luoghi di attesa del peggio, basta ricordare che in alcuni casi si può trattare di centri di ricerca. "Tra quelle condotte dal nostro gruppo, e spesso finanziate anche da AIRC, ve ne sono altre sulla suscettibilità genetica al dolore e sulla variabilità della risposta agli oppioidi, un ambito nel quale c'è ancora molto da lavorare anche perché fino a non molti anni fa, il settore era considerato una sorta di cenerentola della ricerca e chi vi lavorava procedeva essenzialmente per tentativi ed esperienza diretta" dice Caraceni. Ma al giorno d'oggi un approccio del genere non è più ammissibile, e ogni azione deve essere supportata anche da un'evidenza scientifica: la ricerca nel campo specifico del dolore oncologico in fase avanzata ha bisogno di migliorare, c'è ancora spazio per progredire. "C'è scarsità di nuovi farmaci perché ci sono pochi fondi destinati a queste ricerche" spiega Caraceni, che assieme al suo gruppo collabora con la European Association for Palliative Care curando le linee guida europee sul dolore da cancro.
Ma la ricerca non è solo legata al dolore. "Ci si può focalizzare anche su altri sintomi come per esempio nausea, vomito, anoressia, cachessia, tenendo conto del fatto che per molti pazienti in queste fasi l'aspetto nutrizionale è di estrema importanza" ricorda l'oncologo che poi aggiunge: "E ci sono anche sintomi che quasi nessuno studia ma sono molto comuni e fondamentali per il paziente, come la dispnea e la confusione mentale. Chiude la gamma di ricerche possibili - ma senza esaurirla - tutto il filone dedicato ad aspetti meno clinici, ma di certo non meno importanti per chi affronta le fasi finali della vita. "Negli anni sono state effettuate ricerche per approfondire il tema della comunicazione al paziente rispetto alle sue scelte oppure relative agli aspetti spirituali che per qualche paziente si sovrappongono alla religione, per altri invece hanno un significato del tutto diverso" precisa Caraceni. Una cosa è certa: tutti gli sforzi puntano a migliorare e valorizzare questa fase della vita che spesso invece viene messa in secondo piano o addirittura rimossa.
Sono in molti a pensare che la sofferenza e il dolore siano componenti inevitabili nelle fasi finali della vita di un malato oncologico o affetto da un'altra malattia in fase terminale. La legge però non dice questo: le cure palliative sono infatti un diritto del malato e sono gratuite. La legge 38 del 2010 "tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore", servizi che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale dal momento che le cure palliative rientrano nei cosiddetti "Livelli essenziali di assistenza" (LEA). Un'assistenza che non si limita a curare il paziente dal punto di vista fisico cercando di alleviarne il dolore o altri sintomi più o meno gravi, ma si occupa anche della sofferenza psicologica, del sostegno spirituale e dei programmi di supporto al lutto per i familiari. E anche se le modalità per accedere alla rete locale di cure palliative sono diverse da Regione a Regione, è sempre possibile contattare il medico di famiglia, lo specialita, le ASL o le associazioni di volontariato che sapranno indicare la via da seguire.
Il diario di una giornalista che varca la soglia del reparto e che dice: "In un luogo dove mi aspettavo di trovare solo emozioni negative, ho trovato invece tanto entusiasmo e serenità"
Quando mi è stato chiesto di parlare di hospice ho avuto qualche dubbio. Temevo fosse troppo complicato descrivere ciò che accade in queste strutture senza utilizzare i toni cupi, che si associano in genere all afine della vita. Ma mi sono dovuta ricredere. Al termine del pomeriggio trascorso nell'hospice dell'Istituto nazionale tumori di Milano posso dire, a rischio di sembrare paradossale, di essere stata in uno dei reparti più ricchi di vita che mi sia capitato di visitare.
Sono arrivata in Istituto in tarda mattinata, accolta da Augusto Caraceni. Prima di iniziare la nostra chiacchierata, il direttore mi ha mostrato il reparto e ho subito capito di essere in un luogo particolare: c'è una sala da pranzo colorata, una cucina e un frigorifero a disposizione dei familiari dei pazienti ricoverati, una sorta di sala lettura dove andare a rilassarsi, un terrazzino con tanto verde e persino dei canarini.
L'hospice non è solo un luogo confortevole, una sorta di albergo: è fatto soprattutto di tante persone perparate che ogni giorno si dedicano agli altri, anima e corpo. Una professionalità e una dedizione che ho percepito chiaramente già dalle prime battute della lunga chiacchierata con Giuseppe Baiguini, infermiere caposala dell'hospice milanese, presente nonostante un piede dolorante e la possibilità di rimanere a casa in malattia. "Nella fase delle cure palliative il bisogno primario del malato e della sua famiglia è sentirsi accoli" mi ha spiegato Giuseppe. "E noi mettiamo questo bisogno al centro del nostro lavoro, assieme alla convinzione che possiamo e dobbiamo prenderci in carico tutte le necessità fisiche e non, per limitare il disagio. In questo senso chi accompagna il malato è molto imporatnte per noi, perché ci permette di entrare nel cuore dei problemi non solo fisici del paziente". Questa idea di accoglienza e di famiglia allargata non può che colpire: nel reparto si sono celebrati matrimoni e battesimi, si organizzano pizzate e altro ancora, come succede nella vita di tutti i giorni.
C'è però il fattore "tempo", che spesso chi è estraneo a una situazione di salute così grave non è in grado di comprendere fino in fondo.
Tutti hanno diritto ad avere il tempo di dire: perdonami, grazie, ti amo, addio" ho letto su un foglio appeso nella bacheca dell'ufficio del caposala. Il tempo è un elemento centrale al termine dell'esistenza umana, un momento di bilanci e di riflessioni che il personale del reparto riesce a comprendere grazie a quel rapporto profondo che si crea con i pazienti e i parenti. Sono questi gli infermieri dell'hospice: professionisti specializzati e preparati, ma soprattutto persone motivate anche dal punto di vista etico, capaci di non abbandonare mai chi si trova in una fase tanto delicata della vita. E ci sono anche gli assistenti sociali come Valentina, che pur non essendo stata chiamata in reparto, ha deciso di passare comunque a vedere "se era tutto ok"; ci sono i massaggiatori shiatzu che possono aiutare il malato a imparare le tecniche di rilassamento e gestire meglio la propria fisicità modificata; c'è un cappellano per chi lo desidera e ci sono i volontari che ogni giorno dedicano all'hospice parte del loro tempo. E prima di congedarmi, ho avuto anche la possibilità di dare un'occhiata a quello che Giuseppe ha definito "il forziere dei ricordi" e "il carburante per il nostro lavoro": una raccolta di lettere e pensieri che i pazienti e i loro familiari hanno inviato nel corso degli anni.
Ho portato a casa con me un messaggio fondamentale: la morte non è una malattia, è una fase della vita che implica il coinvolgimento di tutte le dimensioni della persa; serve l'intervento clinico mirato a ridurre il sintomo, ma le cure palliative e l'hospice non sono solo questo.
Cicely Saunders nasce a Londra, nel 1918. Diventa infermiera, poi assistente sociale e infine medico. Molti gli incontri importanti della sua vita, ma uno su tutti la segnerà per sempre: quello con due lavoratori polacchi. Dal primo, morente per un tumore, riceverà un lascito di 500 sterline con le quali inizierà a lavorare sull'idea della terapia del dolore, e dal secondo, anch'egli morto poco dopo, la convinzione a proseguire. Con quest'ultimo l'incontro è presso l'ospizio di S. Joseph di Hackney, per indigenti e malati terminali: lì Saunders ottiene la prima autorizzazione all'impiego della morfina orale ogni quattro ore, per lenire il dolore. Nel 1967 fonda il primo hospice. Da quel momento la sua attività di promozione a livello nazionale prima, e internazionale poi, delle cure palliative e degli hospice è pressoché instancabile: fonda charities, scrive libri e divulga in ogni modo la sua fermissima convinzione nel diritto alla dignità e alla risposta ai bisogni emotivi, spirituali, umani dei malati. Membro di numerose commissioni etiche, conia il termine "dolore totale", per indicare l'insieme di tutti i tipi di dolore fisico e psicologico con il quale fanno spesso i conti i malati terminali. Muore lei stessa per un tumore, nel 2005: è universalmente riconosciuta come fondatrice del movimento internazionale per la terapia del dolore e gli hospice.
Agnese Codignola, Cristina Ferrario