Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Una giovinezza spesa tra ricerca e clinica, sotto l'ala di grandi medici e ricercatori, ha portato Andrea Biondi a dirigere uno dei centri italiani di punta per la cura delle neoplasie ematologiche pediatriche.
Iniziare in un piccolo ospedale, lontano dall'accademia e dalle grandi cliniche, comporta molte difficoltà ma può essere un'esperienza alquanto formativa. Per Andrea Biondi, direttore della Clinica pediatrica della Fondazione MBBM dell'Ospedale San Gerardo di Monza e una carriera a cavallo tra clinica e ricerca, questo ha significato sviluppare la capacità diagnostica, sia dal punto di vista del metodo che dell'approccio al paziente, accompagnando sempre la curiosità con il rigore. "Volevo vedere la realtà vera e ho avuto la fortuna di lavorare con uno straordinario internista, Gaspare Jean, tra le altre cose insignito di un Ambrogino d'oro nel 2009".
La decisione di studiare medicina risale agli ultimi anni del liceo. "Intravvedevo nella professione di medico la possibilità di coniugare due aspirazioni che sentivo forti fin da quegli anni: da una parte l'interesse scientifico, dall'altra la voglia di relazione con gli altri esseri umani, che considero l'essenza della vita e anche il suo mistero. E, non da ultimo, l'idea di essere d'aiuto".
Questo è il tratto distintivo che accomuna le tappe del suo percorso che ha seguito tanti sentieri diversi - dalla biologia molecolare all'immunologia fino all'editing genetico - imboccati nel tentativo di rispondere a domande cliniche, per le quali si sono rivelati tutti cruciali. E poi c'è il caso: "Lo dico sempre ai miei studenti: impegnatevi al massimo e date il meglio di voi, ma lasciate spazio all'imponderabile delle circostanze e degli incontri". E anche alla passione, che a volte indirizza molto più del talento.
Biondi ha conseguito due specialità, prima in pediatria e, poi, in ematologia. "Volevo vedere i bambini guarire" ammette Biondi, una gioventù negli scout, organizzazione nella quale ha continuato a operare a lungo in qualità di capo nazionale Agesci, importando in Italia iniziative che all'estero erano già una realtà, come il coinvolgimento di bambini disabili nelle attività all'aperto. Con lo stesso spirito ha contribuito alla realizzazione della nuovissima sede del Centro Maria Letizia Verga e della Fondazione Tettamanti del San Gerardo di Monza, di cui è il direttore scientifico, dove i bambini hanno a disposizione, oltre a un day hospital, spazi per l'accoglienza, servizi, sale giochi e ricreative, per un totale di quattro piani e 7.700 metri quadri. Dopotutto, come recita il motto del fondatore del movimento, Baden-Powell, "scout un giorno, scout per sempre".
Dallo scoutismo deriva anche l'idea di fare il servizio civile: "Venni a sapere che l'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri prendeva obiettori di coscienza e mi inserii nell'unità di ricerca di Alberto Mantovani, cui devo moltissimo. Lasciava sul tavolo le riviste scientifiche sulle quali annotava gli articoli da leggere "per Andrea".
Grazie a una borsa AIRC, Biondi parte per Boston con la moglie, insegnante di lingue e conosciuta nello scoutismo. Destinazione: il dipartimento di Tumor Immunology al Dana Farber Cancer Institute della Harvard Medical School, in un momento di grande sviluppo della tecnologia legata agli anticorpi monoclonali. Negli USA, nel dicembre 1983, nasce anche il primo figlio, Matteo. L'anno successivo, il rientro al Mario Negri è l'inizio di un periodo molto faticoso ma appagante di attività di ricerca e clinica che lo ha visto impegnato nella costruzione di un laboratorio di ricerca nella clinica pediatrica dell'ospedale di Monza, diretta da Giuseppe Masera, padre della lotta alle leucemie infantili.
"Con l'esplosione della biologia molecolare, da immunologo decisi che dovevo acquisire nuove competenze, quindi partii alla volta del BioResearch Department dell'Ontario Cancer Institute, in Canada, dove mi ritrovai di nuovo al bancone. Questa volta la famiglia rimase in Italia, perché nel frattempo era nato Simone. La lontananza è stata difficile, anche per mia moglie che si prese carico di tutto, famiglia e lavoro, in condizioni economicamente non facili come erano in quei primi anni" ricorda. Oggi né Matteo, né Simone, né il terzo figlio, Filippo, hanno seguito le sue orme. "I più grandi sono ingegneri, Filippo invece sta facendo il dottorato in economia a Lovanio, in Belgio". Un padre troppo ingombrante? "Non credo" si schernisce. E, scherzando: "A contenere la mia personalità ci pensa mia moglie, per fortuna". Trovarsi nei luoghi e nei momenti di maggior fermento scientifico ha richiesto un impegno totale: "Oggi però penso spesso a quanto mi sarebbe piaciuto avere più tempo per la famiglia". L'ambito nel quale ha maggiormente operato Andrea Biondi è quello della leucemia linfoblastica acuta (LLA), una neoplasia del midollo osseo. È la più frequente nei bambini e costituisce il 75 per cento dei casi di leucemia infantile. La buona notizia è che il 90 per cento dei pazienti in età pediatrica guarisce o ha una lunga sopravvivenza.
"La malattia si sviluppa a partire dai linfoblasti, che sono i precursori dei linfociti, cellule del sistema immunitario incaricate di combattere le infezioni. Nella LLA, alcuni linfoblasti subiscono gravi mutazioni genetiche che impediscono la loro normale maturazione in linfociti e li spingono a proliferare in modo incontrollato, invadendo il midollo osseo dove ostacolano lo sviluppo delle cellule normali" spiega Biondi.
L'attività di ricerca da lui coordinata riguarda la genetica molecolare applicata alla diagnostica e al monitoraggio delle malattie leucemiche del bambino: "L'obiettivo è quello di individuare nuovi fattori di rischio in base ai quali indirizzare in modo appropriato le terapie e individuare e sperimentare nuove cure mirate, più efficaci e meno tossiche".
Il cambiamento in corso nelle terapie oncologiche è tale che l'analisi genetica del singolo caso è diventata indispensabile e ha consentito di utilizzare nuove classi di farmaci per i casi resistenti o refrattari alle terapie più classiche. Ora la speranza viene dalla possibilità di dinamizzare i linfociti nella loro lotta alle cellule del cancro. "Stiamo parlando di cellule immunitarie riprogrammate tramite l'editing genetico e che si esprimono sulla superficie di particolari recettori, i CAR (Chimeric Antigen Receptor T-cells) che rendono le cellule T in grado di attaccare e distruggere le cellule tumorali". Questo consente un trattamento personalizzato, sviluppato individualmente per ogni paziente, per ora piuttosto costoso, ma molto promettente. Ancora una volta, puntare sulla ricerca paga: "Siamo stati una delle prime istituzioni in Italia, nel 2007, ad avere dall'AIFA l'autorizzazione di cell factory, che oggi è mantenuta da Ospedale e Fondazione Tettamanti. Abbiamo sviluppato protocolli di terapie cellulari per vari contesti" racconta Biondi. "Per la leucemia linfoblastica acuta partirà a breve il primo protocollo di utilizzo dei CAR, sviluppato interamente da noi, e che ha ottenuto i permessi per essere portato alla fase di sperimentazione clinica sui bambini e sugli adulti. Ancora una volta AIRC ha sostenuto (con il 5 per mille) il Programma, coordinato da Alberto Mantovani, di cui il nostro progetto è una costola". Un motivo di soddisfazione per un piccolo istituto che non può contare sulle risorse di una grande casa farmaceutica. "Se la cura funzionerà sarà la dimostrazione di cosa si può ottenere unendo le forze dell'università e delle associazioni non profit". L'integrazione degli sforzi di tutti, anche a livello mondiale, ha spinto il centro di oncoematologia di Monza a organizzare iniziative per il trasferimento delle proprie conoscenze nei Paesi a basso reddito dell'America Latina.
Monza, dove si curano i pazienti lombardi e il 20 per cento dei casi di leucemie in Italia, è da tempo un centro chiave nella rete oncoematologica pediatrica del Paese, costituita dall'Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (AIEOP) che riunisce professionisti dell'ematologia, dell'oncologia e dell'immunologia nel bambino e nell'adolescente. "Da 25 anni la diagnostica è gestita dal nostro hub a Padova, guidato da Giuseppe Basso, dove arrivano tutti i midolli prelevati" racconta Biondi. "Qui eseguiamo l'analisi genetica sui campioni di 450 bambini che ogni anno si ammalano e si rivolgono al nostro network". Per garantire i massimi standard di qualità del percorso di cura, l'AIEOP gestisce, direttamente o indirettamente, tutti i protocolli di diagnosi e cura del bambino, che ormai hanno comunque una dimensione internazionale.
Biondi presiede il network europeo, IBFM (International Berlin-Frankfurt-Münster Study Group) a cui aderiscono i gruppi nazionali. Ma la rarità di certe malattie impone di guardare oltre l'Europa. "Abbiamo appena avviato uno studio che vedrà la partecipazione di tutti i centri europei e del Children Oncology Group, che ha base negli Stati Uniti e in Canada, a un protocollo accademico per il miglioramento delle cure di una forma di leucemia rara nel bambino, la Philadelphia positiva, la cui storia è cambiata grazie all'arrivo di farmaci biologici. L'obiettivo è esplorare come modulare l'intensità del trattamento chemioterapico per ottenere i massimi benefici. Con soli 60 casi l'anno in Europa e altrettanti in America, nessun Paese potrà mai affrontare da solo un simile interrogativo". Iniziative cruciali che "richiedono tempo e non beneficiano di finanziamenti, se non quelli delle charity come AIRC, che per me è stata sempre fondamentale, perché mi ha permesso di andare a Boston e poi, al mio rientro in Italia, mi ha sempre sostenuto permettendomi di far progressivamente crescere il gruppo. AIRC con le sue strategie di finanziamento raccoglie frutti a lungo termine".
"Il primo registro italiano degli off therapy, cioè dei pazienti che non sono più in cura perché si trovano in fase di remissione, lo si deve a Giuseppe Masera, fu una sua intuizione" dice Andrea Biondi. Oggi, l'attenzione al follow-up dei ragazzi guariti è diventato uno dei temi principali in oncologia pediatrica. Il concetto, relativamente recente ma fondamentale, è la necessità di valutare e prevenire le conseguenze e le malattie causate proprio dalle cure salvavita a cui sono stati sottoposti. La "lungo-sopravvivenza" definisce infatti tutti coloro che hanno avuto una diagnosi di tumore da oltre cinque anni e i pazienti "survivor" ovvero liberi da malattia, che possiamo considerare guariti e che non si stanno sottoponendo ad alcuna terapia. Tra le categorie più vulnerabili, i piccoli pazienti pediatrici. "I bambini che guariscono hanno una vita davanti e bisogna pensare alle complicanze a lungo termine cui possono andare incontro, come la possibilità di sviluppare secondi tumori e altre malattie indotte dal trattamento, cioè gli effetti tardivi di chirurgia, radio o chemio". L'attenzione a questo aspetto ha progressivamente imposto la modulazione dei trattamenti di chemio e radioterapia.
Nicla Panciera