Ultimo aggiornamento: 8 gennaio 2025
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Gli ormoni sono molecole prodotte nell’organismo con diverse funzioni, tra cui la regolazione dell’attività di organi specifici che raggiungono attraverso il circolo sanguigno, anche in aree distanti da quella in cui sono stati sintetizzati e rilasciati. Alcuni tra gli ormoni più noti, come gli estrogeni e gli androgeni, sono prodotti primariamente da ghiandole appartenenti al sistema endocrino e possono stimolare la crescita di alcuni tumori, per esempio quelli del seno o della prostata. La terapia ormonale, chiamata anche ormonoterapia o terapia endocrina, può avere lo scopo di impedire la produzione di tali ormoni o di bloccarne l’azione di stimolo alla proliferazione diretta alle cellule sensibili, tra cui quelle cancerose.
Ormoni come gli estrogeni o gli androgeni possono stimolare la crescita di alcuni tumori al seno o alla prostata., Pertanto la terapia ormonale – chiamata anche ormonoterapia o terapia endocrina – ha l’obiettivo di impedire la produzione di tali ormoni o di bloccarne l’azione di stimolo alla moltiplicazione delle cellule cancerose, la cosiddetta azione proliferativa.
La terapia ormonale può ridurre il rischio di recidiva, ovvero la probabilità che un tumore si ripresenti dopo la conclusione di altri trattamenti (quali intervento chirurgico, radioterapia, chemioterapia), oppure può contribuire a ridurre per un certo periodo i sintomi di una malattia in fase più avanzata. Se gli altri trattamenti non sono indicati, può essere l’unico tipo di cura adottata.
La terapia ormonale viene usata anche come terapia neoadiuvante, ovvero per ridurre le dimensioni del tumore prima di un intervento chirurgico.
Potrebbe anche essere adoperata come terapia di farmaco-prevenzione in persone sane ma ad alto rischio, per prevenire la comparsa di alcuni tipi di tumore, ma gli esperti hanno pareri discordi sul rapporto fra rischi e benefici di questo tipo di approccio.
La terapia ormonale può essere utilizzata solo per tumori sensibili all’azione degli ormoni utilizzati, quali:
Le principali classi di farmaci per terapia ormonale sono:
Altri farmaci usati sono il medrossiprogesterone acetato e il megestrolo acetato, e negli uomini gli antiandrogeni abiraterone acetato, enzalutamide e apalutamide.
La terapia ormonale è in genere ben tollerata e provoca effetti collaterali gravi solo in rari casi. Tuttavia, può comportare una serie di disturbi di entità variabile a seconda del tipo di composto.
In tutte le persone può provocare:
Inoltre:
Nelle prime fasi del trattamento alcuni farmaci possono aumentare la stimolazione ormonale e quindi intensificare i sintomi della malattia (per esempio i disturbi urinari nel caso del cancro alla prostata). Il fenomeno, detto flare-up o tumour flare, è transitorio e può essere tenuto sotto controllo.
Sebbene interferiscano con l’attività sessuale e riproduttiva, questi medicinali non hanno una specifica attività anticoncezionale, quindi non impediscono la possibilità di una gravidanza nel corso del trattamento. Tuttavia, possono interferire con il corretto sviluppo del feto.
Molti tumori del seno hanno sulla membrana e all’interno delle proprie cellule recettori per gli estrogeni, per il progesterone o per entrambi. La loro eventuale presenza si può verificare nell’ambito dell’esame istologico sul materiale prelevato durante la biopsia o l’intervento chirurgico. Se i recettori sono effettivamente presenti, si dice che il tumore è positivo per i recettori degli estrogeni (ER+) e/o per quelli del progesterone (PR+). Ciò significa che i rispettivi ormoni sessuali stimolano la crescita della massa tumorale e che quindi la terapia ormonale è indicata. Se invece i recettori sono assenti, oltre che per estrogeni e progesterone anche per il recettore HER2, il tumore è detto triplo negativo e questo tipo di trattamento non viene preso in considerazione perché non avrebbe alcuna efficacia.
La scelta del tipo di trattamento da adottare in ciascun caso dipende anche da almeno altri 3 fattori. In primo luogo, dal grado di avanzamento della malattia. In secondo luogo, occorre valutare se la donna sia già entrata o meno in menopausa. Infatti, prima della menopausa la maggior parte degli ormoni sessuali femminili circolanti è liberata nel sangue dalle ovaie. Avvicinandosi alla menopausa, le ovaie smettono gradualmente di produrre ormoni e gli estrogeni circolanti sono quindi prodotti da tessuti periferici dell’organismo, soprattutto dal tessuto adiposo e dai muscoli, a partire dagli androgeni prodotti dalle ghiandole surrenali.
Infine, nella scelta del tipo di trattamento incidono anche l’età della donna e il suo desiderio di poter eventualmente avere dei figli dopo le cure. Non si deve esitare a discutere con i propri medici di questo aspetto prima dell’inizio del trattamento perché esistono vari modi per preservare, quando possibile, la fertilità. La menopausa precoce indotta da alcuni di questi trattamenti, infatti, può essere reversibile e la crioconservazione degli ovociti prelevati prima dell’inizio delle cure in alcuni casi lascia aperta la possibilità di ricorrere in un secondo tempo a tecniche di procreazione assistita.
In alcuni casi il trattamento viene prescritto prima dell’intervento chirurgico, per ridurre le dimensioni del tumore da asportare, ma nella maggior parte dei casi si inizia dopo l’intervento (e dopo la chemioterapia, se questa è ritenuta necessaria) e si prosegue per cinque anni, con lo scopo di contrastare un possibile ritorno della malattia. In altri casi la terapia ormonale viene intrapresa quando la malattia viene diagnosticata in fase avanzata o in seguito a una recidiva.
I medici valutano quale approccio sia opportuno seguire in ciascun caso sulla base di diversi fattori.
Nei tumori con recettori ormonali positivi in fase precoce a tutte le età e in quelli in fase avanzata, la terapia ormonale per il tumore del seno generalmente si assume per bocca una volta al giorno, di solito sotto forma di compresse. È importante attenersi alla dose di farmaco prescritta dall’oncologo e alle istruzioni su quando prenderlo rispetto ai pasti: avere lo stomaco vuoto o pieno può cambiare in maniera sostanziale l’assorbimento del medicinale.
Nelle donne più giovani occorre bloccare l’attività delle ovaie sia per alcuni casi di tumore in fase precoce con terapia associata a inibitori dell’aromatasi o tamoxifene, sia per tumori in fase avanzata. Si parla di ablazione ovarica, e si può ottenere in diversi modi:
Di fatto con questi interventi si induce nella donna la menopausa.
Ci sono diversi possibili approcci al trattamento di un tumore al seno sensibile all’azione degli ormoni, anche combinando, a seconda dei casi, i diversi farmaci a disposizione. Ecco i principali.
Il tamoxifene è usato da più di 30 anni per contrastare la crescita dei tumori al seno con recettori ormonali sulle loro cellule. Questo farmaco “inganna” i recettori occupando il posto riservato agli ormoni, senza però agire come loro. Il tamoxifene impedisce così agli estrogeni di comunicare con le cellule tumorali e di stimolare la proliferazione di queste ultime. In tal modo riduce il rischio che la malattia torni dopo l’intervento e la necessità di effettuare una radioterapia o una chemioterapia. Inoltre, abbassa di circa il 40% il rischio relativo che si sviluppi un nuovo tumore nell’altro seno, rispetto a chi nelle stesse condizioni non assume la stessa terapia.
Dati recenti hanno dimostrato che l’effetto protettivo di questa cura si protrae a lungo. Per le donne che l’hanno seguita regolarmente per 5 anni il rischio di morire di tumore al seno nei 15 anni successivi è inferiore di circa un terzo rispetto a quello delle donne che non si sono sottoposte al trattamento. In casi specifici e dopo aver valutato l’esito dell’esame istologico iniziale e le condizioni generali della paziente, per ridurre ulteriormente il rischio di recidiva l’oncologo può decidere di prolungare il trattamento fino a 10 anni.
Bastano 5 milligrammi al giorno di tamoxifene per 3 anni per ridurre del 52% circa il rischio relativo di recidiva nelle donne con una diagnosi di tumore in situ, cioè una forma di tumore molto precoce, non infiltrante, a basso rischio di evoluzione in una forma più invasiva. Inoltre, sempre con questa terapia diminuisce del 75% il rischio di un nuovo carcinoma all’altra mammella. Per forme di tumore della mammella meno semplici da trattare, la dose di 5 milligrammi al giorno non è tuttavia sufficiente. È quanto emerso da uno studio coordinato da Andrea De Censi, direttore dell’Oncologia medica dell’Ospedale Galliera di Genova e consulente scientifico dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, e realizzato anche grazie al sostegno di AIRC.
Quando è indicato il tamoxifene? Il tamoxifene è usato nelle donne che non hanno ancora affrontato la menopausa o in quelle che l’hanno già superata ma che, per varie ragioni, non possono prendere gli inibitori dell’aromatasi. La condizione per l’uso di questo prodotto, anche nei rari casi in cui il tumore al seno colpisce gli uomini, è comunque sempre la presenza sulla superficie delle cellule tumorali dei recettori ormonali, non necessariamente quelli per gli estrogeni ma anche quelli per il progesterone.
Quali precauzioni occorre prendere quando si assume il tamoxifene? Il farmaco va assunto regolarmente per bocca, una volta al giorno, possibilmente sempre alla stessa ora, avendo cura che non sia a portata dei bambini. Non bisogna mai interromperne l’uso o modificarne la dose di propria iniziativa senza consultare il proprio specialista. Smettere la cura prima del tempo rischia di vanificare l’effetto protettivo del tamoxifene contro un possibile ritorno della malattia. Al medico va inoltre segnalato l’uso contemporaneo di altri medicinali: alcuni tipi di antidepressivi e di farmaci per lo stomaco o per il cuore possono infatti interferire con l’azione del tamoxifene, riducendone l’efficacia.
È importante sottolineare inoltre che, anche quando i cicli mestruali sono interrotti per effetto della cura ormonale, è possibile che si instauri una gravidanza. Poiché il farmaco può essere nocivo per lo sviluppo del feto, è bene accertarsi di non essere incinte prima dell’inizio della cura e concordare con i medici un metodo contraccettivo adatto al proprio caso, da assumere per tutta la durata del trattamento.
Quali sono gli effetti collaterali del tamoxifene?
Con il tamoxifene si possono verificare gli effetti tipici da carenza di estrogeni comuni alle altre forme di terapia ormonale. In particolare:
Gli inibitori dell’aromatasi impediscono la produzione degli estrogeni bloccando l’azione dell’aromatasi, un enzima indispensabile per la sintesi degli estrogeni. L’organismo, infatti, ricava gli estrogeni con modifiche chimiche degli androgeni, permesse grazie all’aromatasi. Gli androgeni sono gli ormoni sessuali maschili che vengono prodotti dalla corteccia surrenale anche nelle donne. A questa classe di farmaci appartengono l’anastrozolo, l’exemestane e il letrozolo.
Quando sono indicati gli inibitori dell’aromatasi? Gli inibitori dell’aromatasi sono indicati nelle donne in menopausa, che non producono più estrogeni nelle ovaie, ma solo nei tessuti periferici, soprattutto quello adiposo. Si usano in genere dopo l’intervento per ridurre il rischio di recidive, ma in alcuni casi sono utilizzati anche prima dell’operazione, per ridurre il volume della massa da asportare, oppure nelle fasi più avanzate della malattia.
La terapia va assunta per 5 anni dopo l’intervento chirurgico oppure in sequenza dopo 2 o 3 anni di tamoxifene, per un totale di 5 anni di ormonoterapia. In alcuni specifici casi, sulla base dell’esame istologico iniziale, delle condizioni generali della donna e della tolleranza alla terapia, l’oncologo ha la possibilità di consigliare alle pazienti di proseguire la terapia con inibitori dell’aromatasi oltre il quinto anno.
Gli inibitori dell’aromatasi posso essere utilizzati anche dalle donne in premenopausa, ma necessariamente in associazione con un farmaco della classe degli LHRH analoghi agonisti (triptorelina, goserelin, leuprorelina acetato), poiché altrimenti non potrebbero funzionare. In particolare, negli ultimi anni i risultati di alcune ricerche hanno evidenziato che l’assunzione di un inibitore dell’aromatasi in associazione con un LHRH analogo per 5 anni dopo l’intervento chirurgico riduce il rischio di recidiva nelle pazienti in premenopausa affette da neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi e specifiche caratteristiche.
Sulla base di dati di recenti studi clinici, nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase avanzata è indicata la terapia con inibitori dell’aromatasi da assumere in associazione agli inibitori di CDK4/6 (palbociclib, ribociclib, abemaciclib). Questa associazione permette un potenziamento dell’efficacia della terapia ormonale e di ricorrere più tardi alla chemioterapia, in donne sia in menopausa sia in premenopausa. Per queste ultime è però indicata anche l’assunzione di un LHRH analogo.
Recentemente l’associazione di inibitori di aromatasi con alcuni Inibitori di CDK4/6 è suggerita anche per il trattamento delle donne con tumore della mammella con recettori ormonali positivi in fase precoce. Studi recenti hanno infatti mostrato come il trattamento di combinazione di inibitore dell’aromatasi e inibitore di CDK4/6 rispetto al solo inibitore dell’aromatasi porti a una maggiore riduzione del rischio di recidiva in persone con rischio elevato. Nei casi in cui venga scelta questa combinazione, la durata complessiva della terapia con inibitore dell’aromatasi resta di 5 anni o più a seconda del caso specifico.
Quali sono gli effetti collaterali degli inibitori dell’aromatasi? Gli effetti collaterali degli inibitori dell’aromatasi possono essere di entità variabile a seconda della persona e delle diverse fasi del trattamento. Ciò dipende anche dalle condizioni generali di salute, dalla dose di farmaco prescritta e dalla possibile interazione di questa cura con altre sostanze. Anche per questo è molto importante segnalare al proprio medico tutto ciò che si assume al di fuori delle sue prescrizioni, comprese le vitamine e i prodotti da banco o da erboristeria.
Oltre agli effetti da carenza di estrogeni (sintomi menopausali) comuni alle altre forme di terapia ormonale, con questi medicinali, in meno del 10% dei casi si possono verificare anche:
Altri disturbi frequenti sono, in particolare assumendo anastrozolo:
Assumendo exemestane:
Assumendo letrozolo:
I cosiddetti agonisti dell'LHRH (o GnRH) agiscono a monte rispetto agli altri farmaci ormonali, perché bloccano la produzione dell’ormone luteinizzante (LH), con cui l’ipofisi stimola l’attività delle ovaie e dei testicoli. In particolare, in questo modo le ovaie smettono di produrre ormoni, dato che si verifica un’ablazione o una soppressione ovarica.
Quando sono indicati gli agonisti dell’LHRH? Si utilizzano nelle donne in premenopausa con lo scopo di indurre una menopausa temporanea. Nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase iniziale di malattia, operate, la terapia può essere associata a un inibitore dell’aromatasi o a tamoxifene per 5 anni. Nelle donne con neoplasia mammaria con recettori ormonali positivi in fase avanzata di malattia, gli agonisti dell’LHRH vengono associati alla terapia endocrina indicata per la paziente.
La somministrazione avviene in genere sotto forma di iniezione sottocutanea o intramuscolare. È importante rispettare le scadenze previste per questo trattamento: uno scarto di pochi giorni non produce gravi conseguenze, ma se si ritarda ulteriormente c’è il rischio che il livello degli ormoni ricominci a salire e che alcune delle terapie oncologiche concomitanti non funzionino.
L’effetto di questi medicinali può essere reversibile, diversamente da quanto avviene con l’ablazione ovarica tramite radiazioni o intervento chirurgico (ooforectomia). Nelle donne gli agonisti dell’LHRH interrompono i cicli mestruali, ma questi, soprattutto nelle più giovani, possono ricominciare nel giro di 6-12 mesi dalla sospensione della terapia. In altre parole, una volta sospesa la cura l’ovaio torna a funzionare, anche se nelle donne più vicine alla menopausa questo non sempre si verifica. Nonostante ciò non è impossibile che si instauri una gravidanza nel corso del trattamento. Poiché il farmaco può essere pericoloso per il nascituro è bene discutere con il proprio medico quale metodo contraccettivo utilizzare durante la cura, indipendentemente dal fatto che il partner in terapia sia l’uomo o la donna. In quest’ultimo caso occorre anche accertarsi che non ci sia una gravidanza in atto prima di iniziare la cura.
Nelle prime settimane di trattamento questi farmaci possono scatenare un effetto paradossale di esacerbazione dei sintomi detto flare-up, in misura diversa da farmaco a farmaco e in relazione alle caratteristiche individuali.
Ecco alcuni dei più comuni agonisti dell’LHRH usati per il tumore del seno:
Nelle forme avanzate di tumore al seno comparse dopo la menopausa, con recettori ormonali che tuttavia non rispondono più al tamoxifene né agli inibitori dell’aromatasi, i medici possono ricorrere agli analoghi del progesterone. Tra questi vi sono il medrossiprogesterone acetato o il megestrolo acetato, che si possono assumere per iniezione intramuscolare o per bocca. Essi agiscono attraverso un duplice meccanismo, uno legato alla soppressione degli estrogeni e l’altro diretto alla cellula tumorale.
Il tumore prostatico è una neoplasia in genere dipendente dagli androgeni. In condizioni fisiologiche, la maggior parte degli ormoni androgeni è prodotta dai testicoli in risposta alla stimolazione dell’ormone luteinizzante (LH), nell’asse ipotalamo-ipofisario-gonadico, mentre una parte molto minore (circa il 10%) viene secreta dalle ghiandole surrenaliche.
Il testosterone prodotto dai testicoli maschili stimola la crescita del tumore della prostata. Con la terapia ormonale si cerca di contrastare tale azione rallentando o bloccando la sintesi del testosterone e determinando perciò una deprivazione androgenica.
La maggior parte delle cellule tumorali risponde a questo trattamento nella fase ormono-sensibile. Tuttavia alcune cellule, in particolare nelle fasi avanzate di malattia, proliferano indipendentemente dalla stimolazione ormonale e non rispondono alla terapia. Tali cellule possono addirittura autoprodurre i propri androgeni, tramite un meccanismo autocrino, o presentare mutazioni del gene per il recettore degli androgeni (AR). La conseguenza è una proliferazione pur in presenza di concentrazioni molto basse di ormoni maschili. La quantità di cellule resistenti può aumentare con il passare del tempo, rendendo la malattia “resistente alla castrazione”.
Il trattamento ormonale è comunque un’arma preziosa per ridurre il rischio che la malattia diagnosticata in fase iniziale si ripresenti dopo un trattamento locale. Inoltre, può essere utile a ridurre i sintomi della malattia in stadio avanzato, rallentando o fermando la crescita delle cellule tumorali. In questi casi gli ormoni riescono in genere a controllare il tumore della prostata per diversi anni.
La terapia ormonale si somministra in aggiunta all’intervento chirurgico e alla radioterapia per evitare che la malattia si ripresenti. Questo rischio è considerato più alto quando:
Il trattamento può iniziare prima, durante o dopo la radioterapia e prosegue per un periodo variabile da 6 mesi a 3 anni.
Quando la malattia è troppo estesa o diffusa per essere trattata efficacemente con l’intervento chirurgico o la radioterapia, e se sono presenti metastasi ai linfonodi o disseminate, la terapia ormonale rappresenta lo standard di riferimento.
Questo tipo di trattamento viene utilizzato anche se si presenta una recidiva della malattia dopo un trattamento loco-regionale chirurgico o radioterapico.
La consistente riduzione dei livelli di testosterone in circolo, necessaria per contrastare la crescita delle cellule tumorali, si può ottenere grazie a specifici farmaci oppure con un intervento di orchiectomia bilaterale (cioè l’asportazione dei testicoli).
Gli effetti collaterali più frequenti dipendono dalla sospensione della produzione degli ormoni maschili. Quelli più comuni, in varia misura, a tutti i tipi di trattamento sono:
I disturbi regrediscono in genere dopo alcuni mesi dall’interruzione dell’assunzione dei farmaci.
I cosiddetti agonisti dell'LHRH (per esempio leuprorelina, triptorelina e goserelin) agiscono a monte rispetto agli altri farmaci ormonali, perché bloccano la produzione dell’ormone luteinizzante (LH) con cui l’ipofisi stimola l'attività delle ovaie e dei testicoli. Sono generalmente somministrati per via intramuscolare o sottocutanea, e nell’uomo inibiscono la produzione di testosterone: si ottiene così la cosiddetta castrazione chimica o farmacologica.
In genere gli agonisti dell’LHRH si somministrano con iniezione sottocutanea o intramuscolare. È importante rispettare le scadenze previste per questo trattamento: uno scarto di pochi giorni non produce gravi conseguenze, ma se si ritarda ulteriormente c’è il rischio che il livello degli ormoni ricominci a salire.
Quali sono gli effetti collaterali degli agonisti dell’LHRH? Nelle prime settimane di trattamento questi farmaci possono scatenare il flare-up, un effetto di esacerbazione dei sintomi, in misura diversa a seconda del farmaco e delle caratteristiche individuali. Quando la malattia ha localizzazioni ossee, i dolori che provoca a questo livello possono aumentare: per questo la cura negli uomini in trattamento per il tumore della prostata è inizialmente accompagnata, di solito per 4 settimane, dalla somministrazione associata di antiandrogeni. Tali farmaci permettono di neutralizzare gli effetti paradossali causati dall’aumento transitorio dei livelli di testosterone.
Valide alternative al trattamento con analoghi LHRH possono essere gli LHRH antagonisti o antagonisti del GnRH (per esempio il degarelix), specie nei pazienti a maggior rischio di flare-up, o nei quali è necessario ottenere più rapidamente la risposta terapeutica. Gli antagonisti del GnRH inibiscono direttamente l’LHRH a livello ipofisario attraverso un meccanismo di tipo competitivo e bloccano la secrezione di LH e FSH senza determinare effetti agonisti, consentendo pertanto di evitare il fenomeno del flare-up.
Il testosterone stimola la replicazione delle cellule tumorali della prostata legandosi a specifici recettori che si trovano sulla superficie delle cellule stesse. Gli antiandrogeni sono farmaci che bloccano l’interazione tra l’ormone sessuale maschile e questi recettori, inibendo così la crescita del tumore. Rispetto agli agonisti dell’LHRH provocano meno disturbi di erezione, ma più dolore a livello mammario. Possono essere associati ad altri medicinali o nelle prime fasi di trattamento per ridurre l’effetto provocato dal temporaneo aumento della produzione di androgeni (flare-up), oppure per tutta la durata del trattamento per potenziarne l’effetto (blocco androgenico totale). I principali antiandrogeni sono:
Nel tumore dell’utero, la terapia ormonale si prescrive solo quando la malattia colpisce l’endometrio, il rivestimento interno dell’organo, e non quando la malattia riguarda il collo, cioè nel caso di tumore della cervice uterina. L’endometrio, infatti, come la ghiandola mammaria o l’ovaio, risponde ciclicamente all’azione degli ormoni sessuali femminili, estrogeni e progesterone. Nella donna in età fertile tali ormoni fanno proliferare e maturare ogni mese l’endometrio stesso, predisponendolo a un’eventuale gravidanza.
La terapia ormonale per il tumore dell’endometrio non è un’opzione terapeutica efficace in tutte le pazienti, ma solo in casi specifici. Nei tumori al primo stadio, se la donna è ancora in età fertile e desidera avere dei figli, solo in alcuni casi selezionati per preservare la fertilità si utilizza una spirale al progestinico così da evitare o rimandare l’asportazione dell’utero.
Per il tumore in stadio avanzato, invece, si utilizzano antiestrogeni (tamoxifene) o progestinici (megestrolo o medrossiprogesterone); soprattutto questi ultimi rappresentano un’alternativa alla chemioterapia in alcuni tipi di tumore specifici che, per le loro caratteristiche, non sono molto aggressivi.
Gli ormoni sessuali, estrogeni e progestinici, sono implicati anche nello sviluppo del cancro dell’ovaio, stimolando la proliferazione delle cellule cancerose. Per quanto riguarda la terapia ormonale per il tumore dell’ovaio, l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, consente l’utilizzo degli inibitori dell’aromatasi nel trattamento della recidiva, anche se in letteratura ci sono pochi dati sull’efficacia di questo trattamento. In clinica, dunque, vengono utilizzati, in particolare in caso di recidiva, nella pausa tra un ciclo di chemioterapia e l’altro.
La neoplasia in cui la terapia ormonale ha una documentata efficacia è il tumore sieroso di basso grado, un tipo di carcinoma ovarico che risponde debolmente alla chemioterapia. In questo caso gli inibitori dell’aromatasi sono la prima opzione di cura in caso di recidiva.
Le informazioni presenti in questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Autore originale: Michela Vuga
Revisione di Cristina Da Rold in data 08/12/2024
Michela Vuga