Ultimo aggiornamento: 8 gennaio 2025
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L’asportazione chirurgica di un cancro è una delle possibili opzioni di trattamento dei tumori solidi. In caso di diagnosi precoce e quando la massa tumorale è sufficientemente piccola e circoscritta, la sola operazione talvolta è sufficiente da sola a guarire il cancro. In altri casi occorre affiancare la chemioterapia o la radioterapia, per eliminare le cellule tumorali che si sono eventualmente diffuse intorno al cancro o in altre parti del corpo attraverso il sangue e il circolo linfatico. La verifica di questa eventualità avviene in genere attraverso l’asportazione dei linfonodi adiacenti al tumore, che vengono esaminati al microscopio, talvolta anche nel corso dell’operazione stessa. Durante l’operazione può sorgere la necessità di estendere l’intervento oltre i limiti previsti o, al contrario, si può rendere evidente una situazione che sconsiglia di procedere come era stato preventivato.
L’opportunità di affrontare la malattia con un intervento è stabilita dai medici in relazione:
Negli ultimi 5-10 anni la ricerca sul cancro, con l’introduzione di nuovi approcci farmacologici, ha aumentato notevolmente la possibilità di intervenire chirurgicamente per asportare tumori che prima era difficile operare. Si è infatti diffuso sempre di più l’approccio dopo una chemioterapia preoperatoria, soprattutto per alcuni tipi di tumore, come quelli dell’apparato digerente (esofago, stomaco), alcuni tumori della mammella e il cancro del retto. Con i trattamenti preoperatori è possibile sia trattare precocemente piccole metastasi invisibili sia a ridurre il volume della malattia, aumentando dunque l’efficacia dell’intervento.
Oggi, in genere, a fronte di una malattia asportabile chirurgicamente vengono considerati anche parametri biologici, come il livello di marcatori tumorali e le condizioni cliniche dei pazienti (per esempio, se hanno perso molto peso o se hanno un dolore preoperatorio importante). Rilevare queste informazioni aiuta i medici a capire se la persona sia a elevato rischio di recidiva precoce di malattia e quale potrebbe essere il miglior trattamento da proporre.
L’intervento è indicato per:
In genere non si consiglia l’intervento quando:
Da quando il medico stabilisce la necessità dell’intervento al momento di entrare in sala operatoria possono passare da pochi giorni ad alcune settimane. Questa attesa permette di:
essere aiutati da uno psiconcologo. Spesso la chirurgia è un atto psicologicamente molto importante. L’espressione “non operiamo” è storicamente associata a “non operabile”, per cui le ragioni della scelta di non operare subito, ma di iniziare con una chemioterapia o una combinazione di radioterapia e chemioterapia, vanno spiegate molto bene per evitare che i pazienti si spaventino o pensino di essere in una situazione ormai non trattabile al meglio.
A seconda dei casi, l’asportazione di un tumore può essere effettuata in regime di ricovero diurno o “day surgery”, cioè senza che occorra pernottare in ospedale. Più di frequente l’intervento richiede uno o più giorni di ricovero.
Per i tumori della pelle che si possono asportare in anestesia locale, in genere non occorre il ricovero, a meno che non siano necessari interventi estesi che comportino ampie suture.
Invece, la necessità di un’anestesia generale comporta di solito almeno una notte in ospedale, anche se non sempre.
Prima dell’operazione, un colloquio con il chirurgo dà la possibilità di chiarire i dubbi residui, eventualmente anche con l’aiuto di una persona cara che può partecipare all’incontro. Gli argomenti toccati spesso includono:
Al termine del colloquio, il paziente visiona e sottoscrive il consenso informato, un documento con cui autorizza il chirurgo a intervenire. In questa fase il medico ha il dovere di prospettare tutte le possibili evenienze, anche quelle meno comuni. Se la persona ha domande o preoccupazioni può chiedere al chirurgo chiarimenti su quanto spesso si verificano tali possibili evenienze.
Nel corso di un incontro che precede l’operazione, l’anestesista spiega alla persona il tipo di anestesia che intende eseguire in base al tipo di tumore, alla sua sede e alle condizioni generali del paziente. In alcuni casi, nella valutazione di rischi e benefici delle diverse possibilità, è possibile tener conto anche delle preferenze individuali del paziente, informandolo adeguatamente. In alcuni casi, i pazienti temono la totale perdita di coscienza legata all’anestesia generale; ad altri invece crea ansia l’ambiente della sala operatoria e preferiscono svegliarsi solo dopo che tutto è finito. Per esempio, un intervento sul testicolo può essere effettuato in anestesia generale o spinale, con il paziente sveglio e sensibile nella parte superiore del corpo: nella scelta l’anestesista terrà conto anche dell’opinione del paziente espressa durante il colloquio preoperatorio.
Per l’asportazione di alcuni tipi di tumore, il chirurgo potrebbe suggerire un intervento tramite robot, per cui è importante capire i pro e i contro di questa modalità chirurgica che si sta diffondendo nei centri tecnologicamente più avanzati.
Occorre chiarire che in sala operatoria i robot non si sostituiscono al chirurgo: il loro software consente solo di ricreare una realtà virtuale in cui le capacità di visione e di manipolazione del chirurgo sono amplificate in un modo che sarebbe impossibile senza l’ausilio della macchina. Il campo operatorio, infatti, è ingrandito di circa 10 volte, con una visione tridimensionale di insieme per cui l’operatore si sente completamente immerso in quel che sta facendo. Inoltre, mentre la mano umana ha la possibilità di ruotare di 180° e con 4 gradi di libertà, quella del robot può muoversi a 360° con 7 gradi di libertà. Infine, il movimento è demoltiplicato, ovvero a uno spostamento di un centimetro della mano dell’operatore corrisponde un solo millimetro sul campo operatorio: un grosso vantaggio in termini di precisione, che annulla anche l’effetto di qualunque minimo tremore.
Sebbene i vantaggi di questa tecnica possano sembrare a prima vista evidenti, si stanno ancora raccogliendo prove scientifiche della sua superiorità sulla modalità tradizionale per i diversi tipi di intervento, soprattutto in relazione ai costi elevati di queste apparecchiature e alla necessità di avere operatori appositamente formati. Per questo per il momento si consiglia di riservarla agli interventi per i quali il contributo del robot può essere più rilevante ai fini dell’esito. Nel caso dell’asportazione della prostata, per esempio, i sostenitori della chirurgia robotica sostengono che queste apparecchiature consentono di adottare tecniche “nerve-sparing”, che cioè risparmiano l’innervazione locale, con risultati migliori rispetto all’approccio tradizionale, soprattutto in riferimento al rischio di impotenza sessuale e di incontinenza urinaria. Tuttavia, i risultati di diversi studi, in cui si sono confrontate le due modalità di intervento, non consentono ancora di sostenere quest’affermazione con certezza.
In chirurgia oncologica i robot sono utilizzati anche per l’asportazione di alcuni tumori polmonari e del mediastino, del colon-retto e della cervice uterina, ma l’opportunità di ricorrere a questa tecnica piuttosto che a quella tradizionale andrà discussa col chirurgo caso per caso.
Prima di entrare in sala operatoria occorre una preparazione che può variare in relazione al tipo di intervento e di anestesia. In genere si chiede al paziente di:
Il personale infermieristico provvederà inoltre a:
L’anestesia fa sì che il paziente non avverta dolore durante l’intervento. Viene somministrata nel blocco operatorio, secondo le modalità decise prima dell’operazione.
Le opzioni più comuni sono:
In caso di piccoli interventi in anestesia locale il paziente può in genere tornare subito a casa, attenendosi alle indicazioni fornite. Se invece, come più spesso accade, è stato sottoposto a un intervento che ha richiesto la somministrazione di un’anestesia spinale, peridurale o generale, il paziente viene trattenuto per un certo periodo nel blocco operatorio, dove può essere tenuto meglio sotto controllo.
I tempi previsti per l’operazione non sono quindi quelli effettivi che separano il momento in cui il paziente è prelevato dal reparto a quando vi viene riportato: un ritardo rispetto alle attese, a cui possono contribuire anche fattori organizzativi interni, non deve quindi allarmare i familiari.
Dopo gli interventi più impegnativi può essere necessario mantenere uno stretto monitoraggio del paziente per un tempo più lungo: in questi casi il paziente, prima di essere riportato in reparto, può essere tenuto per uno o più giorni nell’unità di terapia intensiva.
Dopo l’intervento chirurgico è normale avvertire disturbi come sonnolenza, debolezza, confusione, eventualmente accompagnati da un senso di nausea e di freddo. L’entità del malessere dipende ovviamente dal tipo di operazione e anestesia a cui si è stati sottoposti, oltre che dalle caratteristiche individuali. In genere ci si ritrova con una flebo al braccio, uno o più tubicini di drenaggio dalla ferita e un catetere per garantire la fuoriuscita delle urine. Tutti questi dispositivi vengono rimossi appena possibile. La ferita sotto la medicazione può essere fastidiosa e alcuni movimenti possono risultare dolorosi per cui spesso vengono somministrati antidolorifici. Se non risultano sufficienti a controllare i sintomi, non bisogna esitare a rivolgersi a medici e infermieri.
In genere ci si ritrova con una flebo al braccio, uno o più tubicini di drenaggio dalla ferita e un catetere per garantire la fuoriuscita delle urine. Tutti questi dispositivi vengono rimossi appena possibile.
La ferita sotto la medicazione può essere fastidiosa e alcuni movimenti possono risultare dolorosi per cui spesso vengono somministrati antidolorifici. Se non risultano sufficienti a controllare la sintomatologia non esitate a rivolgervi a medici e infermieri.
Ogni intervento chirurgico può presentare complicazioni postoperatorie, che possono però spesso essere ridotte con specifici accorgimenti. Le complicazioni più comuni sono:
Tempi e modi con cui ci si può riprendere dopo un intervento dipendono dal tipo di operazione oltre che dalle caratteristiche di ognuno. Sarà il personale a invitare i pazienti ad alzarsi o a riprendere gradualmente a mangiare e bere in relazione alle diverse esigenze. Altrettanto variabili possono essere i tempi per la dimissione dall’ospedale e il ritorno a casa.
Prima di lasciare il reparto è bene rivolgere una serie di domande al personale per sapere:
Ci vorrà comunque tempo per ristabilirsi completamente. È normale sentirsi stanchi anche per settimane, se l’intervento è stato particolarmente impegnativo, e avvertire l’esigenza di riposare durante il giorno.
Alcuni problemi possono persistere anche dopo il rientro a casa. Il dolore, per esempio, è più persistente, soprattutto dopo gli interventi al torace o al seno, per cui a volte occorre continuare a prendere antidolorifici a lungo. Se questi non sono sufficienti è bene farsi consigliare dal proprio medico un centro specializzato nella terapia del dolore.
Un’altra conseguenza a lungo termine di molti interventi oncologici è il linfedema. Si tratta di un rigonfiamento del braccio o della gamba che può subentrare dopo l’asportazione dei linfonodi ascellari o dell’inguine. È bene informare il proprio medico degli eventuali segni di questo disturbo, perché è importante trattarlo fin dalle fasi iniziali.
Dopo l’intervento chirurgico è possibile che i medici prescrivano cicli di chemioterapia o radioterapia, che in questo caso sono dette adiuvanti. Servono a eliminare eventuali cellule tumorali rimaste in prossimità della sede dell’intervento o diffuse per l’organismo, aumentando le probabilità di guarigione.
In alcuni casi il chirurgo preferisce aspettare e monitorare invece di intervenire chirurgicamente subito. Ci sono delle linee guida che suggeriscono quando intervenire subito o quando si può attendere e monitorare per qualche mese per valutare se è il caso di operare. Dipende molto dal tipo di trattamento che si affronta. Per esempio, nel caso in cui il medico ritenga che possa esserci un tumore al seno a causa di un nodulo sospetto, può anche intervenire con una nodulectomia, ovvero l’asportazione del nodulo. Si tratta di un intervento a basso impatto, sia perché l’operazioe è semplice sia perché l’effetto psicofisico sulla paziente è limitato. Se il nodulo dovesse risultare maligno, e solo in quel caso, si decide di sottoporre la paziente anche a una quadrantectomia, ossia alla rimozione di una parte del seno, un intervento un po’ più invasivo e più pesante per la persona, sia fisicamente sia psicologicamente. Lo stesso approccio si ha con i nevi sospetti.
Di fronte a interventi che sarebbero potenzialmente complessi, molti medici preferiscono procedere con una sorveglianza attiva, cioè rivedere i pazienti dopo pochi mesi, ripetere gli accertamenti e le biopsie per avere informazioni in più prima di procedere con un’eventuale operazione.
Vi sono tumori per i quali la chirurgia può essere curativa: è il caso in cui il tumore è individuato in una fase molto precoce, per esempio grazie a uno screening, e si stabilisce che ha caratteristiche biologiche di basso rischio. Anche per questo sottoporsi agli screening per il tumore alla mammella, alla cervice uterina e al colon è importantissimo, dato che aumenta le probabilità che il tumore possa essere curato con interventi più semplici e meno trattamenti.
Alcuni tipi di tumore più aggressivi in genere si manifestano a partire da lesioni di natura cistica, ossia forme potenzialmente precancerose. Nella maggior parte dei casi, tali lesioni non evolvono in tumori, quindi solo una piccola percentuale necessita di un intervento, e si preferisce monitorare la situazione con una cadenza annuale o semestrale. Nei casi in cui c’è un sospetto o si individua il tumore in fase molto precoce e si interviene, i tassi sopravvivenza sono estremamente alti.
Da diversi anni esiste si parla di chirurgia stereotassica, che è in realtà non un intervento chirurgico ma una forma di radioterapia particolare: si concentrano dosi estremamente elevate di radiazioni in volumi molto piccoli. Si utilizza oggi soprattutto per le lesioni cerebrali in aree critiche, o per trattare metastasi a polmoni e fegato. La tecnica permette infatti di “bruciare” le lesioni in siti dove sarebbe molto complesso intervenire chirurgicamente.
Nell’ambito dei trattamenti di malattie metastatiche, la radiochirurgia stereotassica può avere un valore palliativo, con l’obiettivo di ottimizzare la qualità di vita della persona. Il termine “palliativo” non si usa oggi più, come in passato, solo per indicare l’obiettivo di alleviare il dolore senza possibilità di cura, ma con il fine di migliorare il benessere di malati con una buona prospettiva di sopravvivenza.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Autore originale: Agenzia Zadig
Revisione di Cristina Da Rold in data 08/12/2024
Agenzia Zadig