Proliferano le aziende che invitano a fare analizzare il DNA per valutare il rischio individuale di ammalarsi. Le risposte che si ottengono, oltre a non essere necessariamente affidabili, non sempre possono aiutare a prendere eventuali decisioni.
Come fossero una sorta di sfera di cristallo, i test genetici, nelle parole di chi li promuove, spesso promettono di rivelare alle persone tutti i segreti nascosti nel DNA e di quantificare il rischio individuale di ammalarsi di varie patologie. Più precisamente, i test con cui si valuta il cosiddetto rischio poligenico, prendono in esame innumerevoli varianti presenti nel nostro genoma e con l’uso di speciali software elaborano una stima del rischio di incorrere in determinate malattia (oltre al cancro, anche altre patologie neurodegenerative, metaboliche e cardiovascolari). In molti casi, tuttavia, queste malattie possono essere causate da più fattori, fra i quali la componente genetica ha solo una parte. Un ruolo importante è, infatti, svolto dall’ambiente, dalle abitudini, dai comportamenti e dal caso.
Su Internet è facile trovare aziende, anche italiane, che offrono la possibilità di effettuare questi test. Gli inviti e le promozioni sono apparentemente innocui: in fondo che rischio si corre a mandare in laboratorio un semplice tampone di saliva o un campione di sangue? Dietro di essi, però, possono nascondersi pericolosi fraintendimenti. Perché se è vero che la medicina ha identificato alcuni geni che aumentano la predisposizione ad ammalarsi di determinate malattie, è anche vero che cercarli è utile solo in casi selezionati. Quando il rischio è certo, sufficientemente elevato ed è possibile mettere in atto strategie per ridurlo. Anche in queste situazioni è importante sapere che i risultati ottenuti indicano sempre una probabilità e mai una certezza, e che vanno considerati nell’insieme di tutti i fattori di rischio. Prima di effettuare gli esami è fondamentale affidarsi a un medico genetista con esperienza per verificare la necessità di sottoporsi al test. Dopo un’attenta anamnesi della persona e delle sue caratteristiche, lo specialista potrà stabilire quali geni debbano essere analizzati e indicare un laboratorio accreditato con il Sistema sanitario nazionale a cui rivolgersi. Sempre il medico genetista dovrà essere consultato per interpretare e spiegare i risultati ottenuti.
Sotto il grande “cappello” dei test genetici si trovano molteplici esami con tante finalità diverse.
Una prima famiglia di test comprende esami per eventuali alterazioni genetiche da rilevare prima o dopo la nascita. Per esempio, i test di screening neonatale per la diagnosi precoce permettono di individuare numerose malattie genetiche ed ereditarie entro i primi giorni di vita. Se l’esito è positivo, si effettua un ulteriore test genetico per individuare precise mutazioni nel DNA e confermare l’eventuale presenza della malattia. Non meno importanti sono i test genetici preimpianto per verificare che un embrione ottenuto tramite fecondazione in vitro non presenti una determinata mutazione patogena, dovuta a difetti cromosomici o di un singolo gene. Per quanto riguarda la diagnosi prenatale, invece, è di frequente utilizzato il cosiddetto Non Invasive Prenatal Test (NIPT), un esame che prevede l’estrazione del DNA fetale da un prelievo di sangue materno. In questo modo è possibile individuare, con un alto grado di attendibilità, alcune alterazioni di cromosomi, in particolare le trisomie 21 (la causa della sindrome di Down),18 (all’origine della sindrome di Edwards) e 13 (per la sindrome di Patau). Questo test ha ridotto il ricorso a test prenatali invasivi come la villocentesi e l’amniocentesi. Anche per tutti questi esami è sempre bene affidarsi a esperti che sappiano leggere e interpretare correttamente i risultati.
Altri esami permettono di individuare mutazioni genetiche all’origine di patologie ereditarie che possono predisporre allo sviluppo di specifici tipi di tumore. Di solito si tratta di malattie determinate da un singolo gene, anche dette monogeniche. Un esempio è la poliposi adenomatosa familiare (FAP), in cui la presenza della mutazione specifica aumenta quasi del 100 per cento la probabilità di sviluppare un cancro del colon-retto nel corso della vita, rispetto a chi non ha la mutazione. Se una persona è affetta da FAP, è in genere consigliabile sottoporre al test genetico tutti i familiari di primo grado. Sapere di avere la FAP è importante per monitorare la situazione nel tempo e adottare adeguate misure di prevenzione secondaria, utili alla diagnosi precoce. Tra queste vi possono essere colonscopie di controllo, asportazione dei polipi o interventi più drastici come la rimozione parziale o totale del colon per prevenire la comparsa del tumore.
Infine ci sono test genetici che permettono di individuare determinate mutazioni associate a un aumento notevole del rischio di ammalarsi di specifici tumori, il che non equivale alla certezza di sviluppare la malattia. Un esempio sono le mutazioni solitamente ereditarie dei geni BRCA1 e BRCA2, la cui presenza comporta un aumentato rischio del 60-70 per cento di sviluppare un tumore del seno, rispetto a chi non ha tali mutazioni. Nel caso del tumore dell’ovaio, l’aumento del rischio, sempre rispetto a chi non è portatore, è del 17-45 per cento. Queste mutazioni, seppure in misura minore, aumentano anche il rischio di sviluppare altri tipi di cancro, tra cui quello alla prostata, al pancreas e allo stomaco. Sono questi i risultati di un recente studio internazionale, coordinato dal Dipartimento di medicina molecolare dell’Università “La Sapienza” di Roma in collaborazione con l’Università di Cambridge, e sostenuto anche da Fondazione AIRC. Considerando la storia familiare e l’età di insorgenza di tumore tra i membri della famiglia, l’oncologo può suggerire di eseguire il test per cercare l’eventuale mutazione ereditaria. Sapere di averla può essere molto utile per attuare azioni preventive. Si possono sorvegliare il seno e le ovaie con periodici esami di imaging. Oppure si può considerare di asportare questi organi con un’operazione di chirurgia preventiva. Una soluzione che riduce drasticamente il rischio di sviluppare il cancro.
Non bisogna però dimenticare che la maggioranza delle malattie oncologiche è dovuta a più fattori. Non solo possono essere coinvolti più geni, il cui singolo contributo all’aumento del rischio può essere molto piccolo. Ma spesso è anche necessario che i prodotti di tali geni interagiscano sia con un ambiente interno all’organismo favorevole a un tumore, sia con gli effetti di abitudini e comportamenti non salutari. Inoltre non per tutti i tipi di cancro sono disponibili strategie di prevenzione secondaria per la riduzione del rischio e per la diagnosi precoce. Per queste ragioni, in tali casi i test genetici possono avere un’utilità piuttosto limitata, poiché un eventuale esito positivo non può essere d’aiuto a individuare strategie di prevenzione mirate o scelte cliniche adeguate. Si evidenzia soltanto una possibile suscettibilità ad ammalarsi, che spesso si discosta di poco dal rischio di chi non è portatore delle stesse mutazioni. In altre parole, il risultato in tali casi è poco significativo per indicare con qualche attendibilità se la malattia potrà svilupparsi in futuro. Inoltre, si potrebbero anche scoprire varianti geniche di cui non si conosce il significato, e per le quali è impossibile stabilire l’eventuale patogenicità.
I medici in genere suggeriscono di effettuare test di suscettibilità a persone che provengono da famiglie in cui lo stesso tipo di cancro è comparso con frequenza superiore alla media, nello stesso lato della famiglia e in età precoce rispetto alla media in cui tale cancro si presenta nella popolazione generale. Inoltre i test consigliati riguardano mutazioni note per avere un ruolo nello sviluppo del cancro e malattia per le quali esistono strategie di prevenzione e riduzione del rischio.
Per queste ragioni sono invece sconsigliati test per malattie di cui non sono conosciute alterazioni genetiche causali, o screening generici per persone che non hanno più di un caso in famiglia, dello stesso tipo di tumore, sviluppato in età precoce.
Fare un test genetico senza tali indicazioni può portare a esiti che possono essere illusoriamente rassicuranti o inutilmente ansiogeni. Infatti, un risultato negativo può far pensare che uno non svilupperà mai un tumore, mentre significa soltanto che il rischio è verosimilmente pari a quello medio della popolazione generale. Un risultato positivo sembrerebbe indicare un rischio aumentato, che però, per le ragioni indicate sopra, non è affatto facile da quantificare, dati i tanti altri fattori implicati. Le cifre che a volte vengono date dai consulenti genetici (più 20, più 30 per cento) possono essere il frutto di conoscenze epidemiologiche, ma nella maggioranza dei casi sono puramente indicative.
I dubbi degli esperti sulla diffusione indiscriminata dei test genetici non riguardano solo gli aspetti più strettamente pratici e scientifici, ma anche quelli etici.
Se una donna scopre, per esempio, di essere portatrice del gene BRCA per il cancro del seno, deve condividere l’informazione con i familiari? E se questi preferiscono non sapere? Esiste un diritto a conoscere ma anche un diritto a non conoscere. Pensiamo, per esempio, alla Corea di Huntington, una malattia ereditaria neurodegenerativa che si manifesta in età adulta, di solito intorno ai 50 anni. In questo caso, dato che la malattia è monogenica, il test genetico è in grado di determinare con certezza se un individuo svilupperà o meno la malattia. Scoprire di avere questa mutazione può, quindi, essere utile per prendere alcune decisioni nella propria vita, quali avere per esempio dei figli o fare test in gravidanza per stabilire se il feto è portatore. Va tuttavia anche rispettata la scelta di chi non desidera sapere di essere portatore di eventuali mutazioni.
Un altro aspetto critico è l’interpretazione dei risultati dei test genetici, che va sempre affidata a un medico genetista. Non tutti hanno infatti dimestichezza non solo con la genetica medica, ma anche con la statistica, che è di fondamentale aiuto per comprendere la reale portata delle informazioni che si ricevono. Per esempio, avere un rischio aumentato di circa il 30 per cento di sviluppare un tumore, rispetto alla popolazione generale, può avere significati anche molti diversi a seconda che la malattia sia molto frequente o relativamente rara. Il 30 per cento in più di una percentuale piccola significa, infatti, un aumento limitato in termini assoluti. Viceversa, se la malattia è molto diffusa, un aumento del 30 per cento può essere invece un incremento del rischio piuttosto consistente.
Occorre poi tenere conto delle possibilità di intervento e degli aspetti psicologici collegati. Può avere senso effettuare un’analisi genetica se alle persone è possibile proporre degli interventi di monitoraggio, farmacologiche o chirurgiche per contenere il rischio. Altrimenti l’informazione ottenuta con un esito positivo può essere, per le persone coinvolte, un anticipo di un possibile dramma con cui convivere. Un esempio tipico è quello delle demenze, tra cui l’Alzheimer. Al momento non c’è modo di fermare l’evoluzione della malattia, né di prevenirla. Quindi, ammesso che un giorno sia messo a punto un test affidabile in grado di indicare con certezza un aumentato rischio di sviluppare questa malattia, in caso di esito positivo non si potrebbe intervenire in alcun modo per impedirne l’insorgenza. Questo almeno sulla base delle conoscenze che abbiamo ora della malattia che, ricordiamo, potrebbe anche non manifestarsi mai.
I risultati di un’analisi del DNA possono essere particolarmente delicati. È quindi fortemente consigliabile che le persone siano consapevoli dei rischi e cerchino pertanto di garantirsi la massima privacy, tutelata anche da apposite leggi severe. Ma in pratica è davvero così? I centri più seri applicano protocolli a norma di legge per la conservazione dei campioni e delle cartelle cliniche contenenti dati sensibili come quelli genetici. Non si può dire altrettanto per le informazioni che viaggiano sul web e che hanno a che fare, per esempio, con le analisi genetiche a scopo genealogico. Condividere online qualunque dato inerente al proprio DNA può comportare importanti rischi per la tutela della privacy. Negli Stati Uniti, per esempio, si sono verificati casi di datori di lavoro o di assicurazioni che hanno consultato la mappa genetica di una persona senza avere né chiesto né ricevuto l’autorizzazione. Le ragioni sono evidenti: perché assicurare o assumere qualcuno che ha un rischio elevato di ammalarsi?
Le norme che regolano questi aspetti sono diverse in ogni Paese, e anche nelle nazioni a maggior tutela ci sono ancora alcune lacune che andrebbero colmate. Esistono, per esempio, banche dati legali contenenti il DNA degli individui che si sono trovati, magari casualmente, sulla scena di un delitto e che nemmeno sanno che il loro materiale biologico è stato analizzato, conservato, archiviato. Per non parlare dei cosiddetti furti di DNA, ovvero della possibilità, piuttosto semplice, che qualcuno faccia analizzare un campione di DNA altrui all’insaputa della persona a cui esso appartiene.
Agenzia Zoe
Articolo pubblicato il:
22 marzo 2023