Ultimo aggiornamento: 19 dicembre 2023
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Tutte le cellule di un organismo hanno lo stesso DNA, ma ciascuna cellula utilizza solo una parte di questo grande insieme di istruzioni genetiche. A seconda del tipo cellulare, del momento dello sviluppo e degli stimoli ambientali, una cellula usa infatti solo i geni che contengono le istruzioni necessarie a svolgere precise funzioni. Per indicare questo utilizzo selettivo, si dice che la cellula esprime determinati geni e non altri.
Un gene che contiene le istruzioni per produrre una proteina viene espresso quando viene trascritto, ossia quando viene generata una molecola di RNA messaggero (mRNA) con la stessa sequenza del gene. Una proteina invece è considerata espressa quando l’mRNA che contiene le istruzioni per produrla viene effettivamente utilizzato per tradurre il linguaggio della genetica in quello delle proteine. In pratica, ciascun mRNA è usato come guida per creare una catena di amminoacidi con una precisa sequenza corrispondente. Tuttavia, una cellula che esprime l’mRNA corrispondente a una proteina non necessariamente la produce.
Sapere quali geni e quali proteine sono effettivamente espressi fornisce informazioni sui processi biologici che stanno avvenendo nelle cellule. Da queste informazioni si può per esempio capire quali molecole sono implicate in quali malattie e identificare possibili bersagli per i farmaci. Di seguito sono descritte alcune tecniche con cui si può analizzare l’espressione di uno o pochi geni e di una o poche proteine.
Una delle prime tecniche messe a punto per l’analisi dell’espressione genica in una cellula è il Northern blot. Utilizzando particolari reagenti, si lisano (ossia si distruggono) le membrane delle cellule e si estrae l’RNA (l’insieme degli mRNA e di altri tipi di RNA). L’RNA purificato viene poi separato nelle molecole di diverse dimensioni mediante elettroforesi su gel di agarosio. In breve, il campione contenente tutti gli RNA viene depositato in un pozzetto ricavato in una mattonella di gel di agarosio. Il gel viene quindi messo in un apparato che crea un campo elettrico che lo attraversa da parte a parte. Poiché gli acidi nucleici come l’RNA sono carichi negativamente, le molecole entrano nel gel e si muovono dal polo negativo verso il polo positivo. Siccome le molecole più piccole si muovono più velocemente, le molecole di RNA si separano lungo la dimensione verticale del gel in base alle dimensioni. Una volta bloccata la migrazione, il gel viene posto a contatto con una speciale membrana: grazie al fenomeno fisico della capillarità, l’RNA passa dal gel alla membrana. La membrana viene quindi messa in incubazione con una sonda radioattiva o luminescente (un frammento di DNA con la sequenza dell’mRNA che si vuole cercare, contenente fosforo radioattivo). La sonda si lega alla membrana in corrispondenza delle molecole di mRNA di interesse. Infine, la membrana viene messa a contatto con una lastra radiografica e la radioattività della sonda impressiona la lastra creando delle macchie nere. Dalle macchie è possibile stabilire se un campione contiene l’mRNA per un determinato gene e se un campione ne contiene più o meno di un altro. Il Northern blot è una tecnica oggi abbastanza desueta, perché richiede tempi lunghi e l’utilizzo di materiale radioattivo.
Al momento, invece, la tecnica più utilizzata per valutare l’espressione genica è la real-time PCR (RT-PCR). Si parte sempre con l’estrazione e la purificazione dell’RNA. Il campione di RNA viene poi usato come stampo per sintetizzare in provetta il suo DNA complementare (cDNA): utilizzando i mattoncini di cui sono fatti gli acidi nucleici (i nucleotidi) e uno specifico enzima (trascrittasi inversa), vengono create delle copie fatte di DNA degli mRNA presenti nel campione. Il cDNA così ottenuto viene poi utilizzato in una reazione di PCR (polymerase chain reaction). Si mescolano il cDNA, piccoli frammenti di DNA con sequenze specifiche del gene di interesse (primer) e un enzima che sintetizza il DNA (DNA polimerasi). Uno speciale strumento (termociclatore) porta il campione alle temperature idonee perché i filamenti di DNA si separino e possano avvenire le reazioni biochimiche che permettono la sintesi di nuovi frammenti di DNA. Ogni ciclo di PCR genera 2 molecole di DNA per ogni molecola che fa da stampo. Il processo è esponenziale: se all’inizio c’erano 2 molecole di cDNA (e quindi, originariamente, di mRNA) per il gene di interesse, dopo un ciclo se ne ottengono 4, dopo due cicli 8 e così via. Nella real-time PCR, la miscela di reazione contiene una molecola fluorescente che si inserisce nel DNA di nuova sintesi. Lo strumento misura la fluorescenza del campione, proporzionale alla quantità di DNA sintetizzato, man mano che si susseguono i cicli di reazione (real time significa in tempo reale). Quantificando il segnale fluorescente si può stabilire se un campione conteneva l’mRNA di interesse e confrontare l’espressione del gene in campioni diversi. Le macchine per la real-time PCR possono analizzare molti campioni alla volta, anche alcune centinaia se il processo è automatizzato. Utilizzando primer diversi si possono studiare più geni contemporaneamente in tempi ridotti.
Se si vogliono valutare con un singolo esperimento tutti gli mRNA espressi dalle cellule, ossia il loro trascrittoma, si utilizzano tecniche come i microarray e l’RNA-seq (vedi scheda sulla trascrittomica).
Per quanto riguarda l’analisi dell’espressione delle proteine delle cellule di interesse, la tecnica di laboratorio maggiormente usata è il Western blot. Per prima cosa si lisano le membrane delle cellule con una soluzione che contiene sodio dodecilsolfato (SDS), una molecola organica che si lega alle proteine linearizzandole, cioè distruggendone la fisiologica struttura tridimensionale data dalla sequenza degli amminoacidi. Le proteine vengono poi separate mediante elettroforesi su gel di acrilammide: si produce un gel di acrilammide dello spessore di pochi millimetri facendolo solidificare tra due lastre di vetro e a un’estremità si formano dei pozzetti in cui si depositano i campioni. Il gel è quindi messo in un apposito apparato che crea un campo elettrico in grado di attraversare il gel per il lungo, da parte a parte. Poiché l’SDS dà alle proteine una carica negativa, esse si muovono nel gel verso il polo positivo. La distanza percorsa nel gel dipende dalla lunghezza di ciascuna proteina e proteine più piccole si muovono più velocemente. Le proteine si separano quindi in base alle dimensioni. Il gel viene poi posto a contatto con una speciale membrana. Sfruttando un campo elettrico generato da un altro apparato, le proteine vengono così trasferite dal gel alla membrana. La membrana viene quindi messa in incubazione con un anticorpo (anticorpo primario) che riconosce soltanto la proteina di interesse. A questa segue una seconda incubazione con un altro anticorpo (anticorpo secondario) che riconosce gli anticorpi primari immobilizzati sulla membrana. L’anticorpo secondario è coniugato a un enzima capace di catalizzare una reazione chimica che emette luce (chemiluminescenza) quando viene fornita l’apposita molecola reattiva (substrato). Dopo avere attivato la chemiluminescenza, la membrana viene messa a contatto con una lastra fotografica e la luce emessa impressiona la lastra creando delle macchie nere in corrispondenza della proteina di interesse. Oggi in genere al posto delle lastre fotografiche si utilizzano dei sistemi di imaging in grado di convertire il segnale luminoso in un segnale digitale, che può essere registrato e analizzato da un computer.
È possibile valutare se le cellule esprimono una proteina solubile (ossia che viene rilasciata all’esterno della cellula) raccogliendo un campione del liquido in cui sono state fatte crescere le cellule e analizzandolo con il test ELISA (ELISA sta per “enzyme-linked immunosorbent assay”). Come il Western blot, anche questo test immunoenzimatico si basa sul riconoscimento di una proteina di interesse da parte di un anticorpo specifico. In breve, l’anticorpo primario è immobilizzato sul fondo di una piastra multipozzetto. Si deposita il campione in un pozzetto così che la proteina si leghi al suo anticorpo corrispondente. Ogni piastra può contenere fino a un centinaio di campioni. Si lava via ciò che non si è legato e si riempiono i pozzetti con una soluzione contenente un anticorpo secondario coniugato a un particolare enzima. Dopo ulteriori lavaggi, si riempiono i pozzetti con una soluzione di un substrato che quando viene modificato chimicamente dall’enzima cambia colore. Quindi, con uno strumento chiamato spettrofotometro si misura l’intensità del colore e, confrontandola con quella del colore sviluppato nei pozzetti dove sono state messe quantità note della proteina di interesse, non solo è possibile dire se la proteina è espressa, ma anche quanta ne viene prodotta.
Per valutare l’espressione di proteine presenti sulla membrana esterna delle cellule o di proteine solubili è anche possibile usare la citometria a flusso. Infine, se si vuole valutare l’espressione di proteine su larga scala si utilizzano tecniche come l’elettroforesi bidimensionale o la spettrometria di massa (vedi scheda sulla proteomica).
Agenzia Zoe