Ultimo aggiornamento: 19 dicembre 2023
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Un concetto chiave nella moderna medicina è il cosiddetto trattamento mirato e di precisione, ovvero una strategia che tenga conto delle caratteristiche di ciascun paziente e di ciascuna malattia nella scelta della terapia più efficace e con i minori effetti collaterali. L’oncologia non fa certo eccezione e anzi, grazie ai grandi progressi compiuti ogni giorno dai ricercatori, oggi assistiamo a una continua evoluzione dei trattamenti disponibili e alla scoperta di nuovi metodi di cura.
Sono passati decenni dall’introduzione dei primi farmaci chemioterapici attorno alla metà del secolo scorso, eppure la chemioterapia è ancora oggi uno dei trattamenti più comunemente utilizzati. Infatti, è ancora un presidio essenziale per la cura di molti tipi di cancro, nonostante gli effetti collaterali siano spesso pesanti. Si tratta di effetti legati proprio al potenziale citotossico (ovvero tossico per le cellule) dei farmaci: nella maggior parte dei casi, la chemioterapia funziona perché interferisce con alcuni processi di crescita e replicazione cellulare, che nelle cellule tumorali sono più attivi. Il punto debole è la mancanza di selettività, per cui l’azione citotossica si fa sentire anche sulle cellule sane, benché in misura minore, dal momento che quelle malate crescono e si replicano più rapidamente.
Data l’importanza della chemioterapia, i ricercatori stanno cercando nuove vie per affinarne la mira, cioè ridurne la tossicità senza compromettere l’efficacia. Negli anni sono stati valutati per esempio approcci basati sulla combinazione di diversi farmaci chemioterapici, sull’utilizzo di nuovi strumenti (come i liposomi) per portare la terapia direttamente all’interno del tumore, oppure la somministrazione, assieme alla chemioterapia, di farmaci volti a contrastare gli effetti collaterali, dagli antiemetici contro nausea e vomito ai mielostimolanti per contrastare l’effetto negativo sul midollo osseo.
Anche la cosiddetta de-escalation rappresenta oggi un campo di studio importante: si tratta di rivedere, riducendoli, dosi e tempi della terapia per alleggerire gli effetti collaterali. In questi casi è fondamentale identificare con precisione i pazienti che davvero possono beneficiare di questa riduzione senza rischiare di pregiudicare l’efficacia delle cure.
Uno dei grandi traguardi della moderna oncologia è senza dubbio la cosiddetta medicina di precisione che, secondo la definizione del National Cancer Institute statunitense, “utilizza le informazioni relative a geni, proteine e ambiente di una persona per prevenire, diagnosticare e trattare la malattia”. Rientrano nel concetto di medicina di precisione tutte le terapie a bersaglio molecolare, ovvero quei farmaci che vanno a colpire uno specifico bersaglio presente solo sulle cellule del tumore di alcuni pazienti, e non su quelle sane. Selezionando i pazienti i cui tumori presentano le caratteristiche molecolari colpite dal farmaco, l’efficacia della terapia è maggiore e molti degli effetti collaterali tipici, per esempio, della chemioterapia possono essere evitati.
Alla base dell’evoluzione continua che anima questo campo terapeutico ci sono dunque le caratteristiche molecolari di ogni singolo tumore, anche se non sempre è facile identificare selettivamente ed esclusivamente questi bersagli. Molti sono infatti comuni anche alle cellule sane, che li possono esprimere seppure a livelli inferiori. Lo studio e la conoscenza dei meccanismi alla base del cancro ha dato una grande spinta alle terapie a bersaglio molecolare: ci sono molecole dirette contro i processi di angiogenesi, ovvero la formazione di nuovi vasi sanguigni che servono per portare nutrimento al tumore. I primi farmaci anti-angiogenici sono stati messi in commercio all’inizio di questo millennio.
Altri farmaci puntano invece a bloccare i fattori che favoriscono la crescita delle cellule, interferendo con alcuni meccanismi molecolari che spesso nel tumore sono alterati rispetto al normale. Tra i primi inibitori dei fattori di crescita si possono ricordare trastuzumab, gefitinib, imatinib e cetuximab. Oggi la lista di molecole disponibili è molto lunga, e quanto più si procede con l’identificazione di nuovi bersagli molecolari tanto più crescono le possibilità di trovare nuove terapie sempre più precise ed efficaci.
In un contesto caratterizzato da grandi innovazioni tecnologiche e dalla possibilità di esplorare i dettagli molecolari più sottili di ogni cellula, la ricerca in alcuni casi guarda anche al passato e riesce a dare nuova vita a vecchi farmaci. È questo il senso del cosiddetto riposizionamento, in inglese drug repurposing o drug repositioning. In alcuni casi è avvenuto per caso, ma oggi il più delle volte è frutto di un attento lavoro di ricerca, basato su sofisticate tecnologie chimiche e informatiche che permettono di comparare le strutture e le caratteristiche chimico-fisiche dei farmaci disponibili.
Uno dei casi più noti in oncologia è quello della talidomide, un farmaco usato in origine contro la nausea in gravidanza e in seguito ritirato dal mercato per i gravi danni osservati sulla salute dei bambini nati da donne che l’avevano utilizzato. Oggi la talidomide può essere impiegata, in adulti non gravidi, nel trattamento del mieloma multiplo.
Uno dei principali vantaggi del riposizionamento è il taglio dei tempi necessari per l’approvazione e l’immissione sul mercato. dal momento che si parte da un farmaco già approvato, di cui sono noti i profili di farmacocinetica, farmacodinamica e tossicità, si stima che dai 10-17 anni necessari per lo sviluppo di una nuova molecola si arrivi ai 3-9 anni in caso di riposizionamento. Con un grande risparmio anche dal punto di vista economico.
Agenzia Zoe