Ultimo aggiornamento: 2 agosto 2022
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I primi favoriscono la crescita dei tumori, i secondi la rallentano: la scoperta di oncogeni e oncosoppressori ha modificato l’approccio alla cura del cancro, e probabilmente continuerà a farlo.
Il premio Nobel per la medicina (per essere più precisi “per la fisiologia o la medicina”) fu assegnato nel 1989 agli statunitensi J. Michael Bishop e Harold E. Varmus per aver scoperto “l’origine cellulare degli oncogeni virali”.
Solo questo potrebbe bastare a comprendere l’importanza dei cosiddetti “oncogeni”, che hanno la loro controparte nei cosiddetti “oncosoppressori” e che ancora oggi, decenni dopo gli esperimenti che portarono alla loro scoperta, rappresentano elementi fondamentali nella lotta contro il cancro.
Il termine “oncogene” fu utilizzato per la prima volta negli anni Sessanta del secolo scorso per indicare geni di origine virale in grado di causare il cancro. All’epoca i ricercatori ritenevano infatti che la causa della trasformazione di una cellula sana in tumorale fossero geni di virus che infettavano le cellule umane. Nel 1975 però, Bishop e Varmus scoprirono che gli “oncogeni” presenti nei virus oncogeni non avevano in realtà un’origine virale, ma erano presumibilmente entrati nel patrimonio genetico virale a partire da scambi con il genoma di cellule animali e umane. Proprio questa scoperta valse loro il premio Nobel.
I prodotti proteici ottenuti da oncogeni e oncosoppressori sono diventati oggi bersagli di numerose terapie mirate. Esempi sono il trastuzumab, contro la proteina HER-2; il bevacizumab, contro il fattore di crescita vascolare VEGF; l’erlotinib contro il recettore del fattore di crescita epidermico EGFR). La comprensione delle funzioni di ciascuna di questi geni e proteine ha contribuito enormemente alla cura dei tumori.
Paragonando la cellula a un’automobile, si potrebbe dire che i proto-oncogeni rappresentano l’acceleratore che, in caso di guasto, diventando oncogene può portarla fuori strada.
I proto-oncogeni sono infatti coinvolti in genere nei processi di controllo della crescita cellulare e, in caso di lesioni genetiche a loro carico, possono diventare oncogeni, modificando la propria funzione originale e dando il via ai processi di sviluppo del cancro.
In alcuni casi il tumore è causato da una mutazione ereditaria nel proto-oncogene, ma molto più spesso le mutazioni vengono acquisite nel corso della vita attraverso diversi processi cellulari.
Tra questi c’è il cosiddetto riarrangiamento cromosomico, ovvero modifiche nella struttura dei cromosomi che portano al cambiamento di posizione di parti di DNA. In alcuni casi questo riarrangiamento crea combinazioni nuove, causando la trasformazione di un proto-oncogene in un oncogene.
In altri casi possono insorgere mutazioni oppure duplicazioni dei geni, che portano a una attivazione continua di alcuni geni o alla presenza in una cellula di più copie di uno stesso gene.
La lista degli oncogeni noti è molto lunga ed è probabilmente destinata ad allungarsi ulteriormente con i progressi della ricerca. Basti pensare che nel 1989, anno del Nobel di Bishop e Varmus, gli oncogeni noti erano già oltre 40.
Per semplificare, è possibile dividere i proto-oncogeni in categorie a seconda del ruolo che svolgono all’interno della cellula e delle loro proprietà biochimiche.
Se gli oncogeni sono l’acceleratore della cellula, gli oncosoppressori possono essere paragonati ai freni.
Gli oncosoppressori sono geni coinvolti in genere nella divisione cellulare, nella riparazione degli errori che si possono generare nel DNA e nei processi di apoptosi (la morte cellulare programmata, fondamentale per permettere all’organismo di mantenersi sano).
Come succede per gli oncogeni, anche gli oncosoppressori possono a un certo punto mutare e perdere la funzione di freno, dando il via al processo di formazione del tumore.
C’è però una differenza fondamentale tra oncogeni e oncosoppressori: i primi diventano pericolosi per la cellula quando mutando o per stimolazione eccessiva sono costantemente attivati, mentre i secondi possono dare origine ai tumori quando vengono eliminati o inattivati.
L’oncosoppressore più noto è p53, presente in forma alterata nel maggior numero di tumori umani e non solo. La proteina prodotta da questo gene è stata identificata nel 1979 e per una decina di anni si è pensato che p53 fosse un oncogene. Solo nel 1989 i ricercatori giunsero a una svolta arrivando a comprendere che si trattava in realtà di un oncosoppressore, in grado, quando non presenta alterazioni, di difendere il DNA. Non per niente ancora oggi si può leggere in alcuni libri di testo che p53 è “il guardiano del genoma”.
Agenzia Zoe