DNA-origami: nanostrutture per i materiali del futuro

Ultimo aggiornamento: 6 marzo 2025

Tempo di lettura: 17 minuti

In che modo possiamo utilizzare il DNA come materia prima per costruire nanoparticelle? E quali sono le opportunità che questa frontiera delle nanotecnologie offre, anche in medicina?

Ripiegare i filamenti di DNA, con altissima precisione, e riorganizzarli realizzando strutture bi- e tridimensionali da impiegare come veicolo per il trasporto di sostanze, o come materiali per la costruzione di impalcature via via più complesse per realizzare dispositivi elettronici in piccolissima scala. È questo ciò che si intende con DNA-origami, il nome dato a una tecnica che ricorda appunto l’antica arte giapponese di costruire oggetti piegando foglietti di carta. In questo caso, però, lo scopo è completamente diverso da quello ornamentale e spazia dalla diagnostica alla cura di malattie come il cancro. Ecco da vicino di cosa si tratta e a che punto è la ricerca su questo fronte delle nanotecnologie.

Perché gli origami, e perché proprio il DNA?

Quando si studiano le molecole coinvolte nei processi che regolano, fanno ammalare o curano il nostro organismo, ciò che conta non è solo la sostanza in gioco, ma anche la forma. Per trattare diverse malattie, tra cui il cancro, non è sufficiente ottenere un principio attivo sicuro ed efficace: è fondamentale che questo sia anche in grado di raggiungere il proprio bersaglio nel corpo per svolgere la propria funzione, possibilmente col minor impatto possibile sui tessuti sani. Per raggiungere questo obiettivo, è importante anche il vettore. La scelta del vettore più idoneo passa anche dalla sua conformazione spaziale. Il principio di base degli origami, cioè di progettare e realizzare strutture con un preciso ordinamento spaziale, ben si presta a soddisfare queste esigenze in scala nanoscopica – l’ordine di grandezza, per intenderci, delle molecole e dei virus.

La struttura del DNA rende questa molecola particolarmente adatta a costruire oggetti in scala nanometrica. Infatti il DNA è costituito da due filamenti di unità elementari ripetute e accoppiate tra loro in modo specifico a formare una lunga struttura avvolta a elica. Proprio per il fatto che queste basi si abbinano in modo prevedibile, è possibile progettare in modo opportuno le sequenze dei filamenti in modo da indurli ad auto-assemblarsi nelle strutture desiderate. Il DNA può dare luogo a nuove forme, grazie alle sue proprietà chimiche intrinseche. Per questo è per gli scienziati un ottimo candidato a realizzare ciò che in gergo è chiamato in inglese scaffold (“impalcatura) per la costruzione di materiali tecnologicamente avanzati o per lo sviluppo di vettori da “caricare” e dirigere verso specifici bersagli in ambito biomedico.

Strutture realizzate a partire dal DNA hanno inoltre, dalla loro, la possibilità di essere molto stabili, robuste e di poter essere facilmente funzionalizzate, cioè arricchite con ulteriori molecole tra cui farmaci, antigeni o altre unità deputate al riconoscimento di precisi recettori di cellule e tessuti, e al legame con essi.

Un ulteriore aspetto da considerare, non meno importante per l’impiego di questa materia prima in biomedicina, è il fatto che si tratta di una molecola di per sé biocompatibile e biodegradabile.

Come tutto è cominciato

La prima pubblicazione scientifica in cui è stato menzionato il DNA-origami risale al 2006: si trattava di un articolo sulla rivista Nature, il cui autore era Paul Rothemund, un bioingegnere computazionale del Caltech di Pasadena in California. Lo scienziato aveva elaborato un metodo per ottenere, in un unico passaggio, figure geometriche bidimensionali a partire da lunghi singoli filamenti di DNA ripiegati in modo strategico.

Le figure erano all’epoca piuttosto semplici: quadrati, triangoli, fiori geometrici, una stella e un fiocco di neve stilizzati, una faccina. L’opera più complessa, e che infatti richiamò attenzione, fu una mappa in miniatura delle Americhe. “Questa è solo arte” fu il commento dello scienziato in occasione dell’uscita dell’articolo. Tuttavia, l’ambizione era di sviluppare quanto prima dispositivi che trovassero applicazione nel campo dell’elettronica, per esempio supporti per componenti microscopiche. Inoltre in biologia molecolare si mirava a costruire composti funzionali grazie alla combinazione con molecole dall’attività specifica, in particolare enzimi.

L’antica arte giapponese degli origami ha consentito a chi l’ha praticata nei secoli di ottenere modelli tridimensionali di animali e altri oggetti di complessità anche piuttosto elevata. Analogamente gli scienziati al lavoro sul DNA hanno raccolto la sfida di realizzare figure via via più sofisticate. Nel 2009, presso la Harvard Medical School di Boston, furono resi pubblici i primi oggetti di DNA-origami in tre dimensioni: cubi, reticoli e una varietà di altre strutture che segnarono un passo decisivo nella progettazione su scala nanometrica di oggetti di biologia sintetica. Da allora sono passati oltre quindici anni: cosa possiamo fare davvero oggi grazie ai DNA-origami?

La lunga strada verso l’applicazione

La letteratura degli ultimissimi anni può darci il polso di quanto rapidamente gli oggetti nanoscopici che si possono realizzare siano diventati complessi. Gli stessi articoli ci dicono anche quanto sia lunga la strada da percorrere per utilizzare nella pratica questi oggetti, soprattutto in ambito clinico. Qui, infatti, il contatto tra tali prodotti e le cellule e i tessuti del nostro corpo deve essere efficace, tollerabile e sicuro.

Dal punto di vista operativo, è oggi possibile ottenere una moltitudine di origami di DNA grazie allo sviluppo, a quasi vent’anni dalla prima pubblicazione, di una grande varietà di tecniche. Allo stesso tempo, però, la capacità di produrre strutture di questo tipo con specifiche funzioni su larga scala è ancora limitata e rappresenta l’ostacolo più imponente oggi sul versante tecnologico, soprattutto in vista delle applicazioni biomediche. Ci sono anche molti interrogativi riguardo agli aspetti tossicologici e, in generale, al comportamento che questi oggetti possono avere all’interno di un organismo e nel tempo.

Al di là di queste incognite, che andranno chiarite in accurati studi preclinici e clinici, la comunità scientifica internazionale reputa il potenziale del DNA-origami piuttosto elevato per la diagnostica,  per controllare alcuni comportamenti delle cellule e per veicolare farmaci (qui uno degli ultimi articoli nell’ambito di studi di oncologia sperimentale). Ma non solo. Il DNA-origami potrebbe essere usato anche come strumento per progettare e sviluppare vaccini. I risultati di una ricerca svolta al MIT di Boston, pubblicati a giugno 2020 sulla rivista Nature Nanotechnology, hanno per esempio dimostrato che capsule realizzate con filamenti di DNA e ricoperte da proteine tipiche di un virus possono essere “confuse” dal nostro organismo con il virus che si incontra in natura, e per questo potrebbero essere efficaci nell’innescare una reazione immunitaria come quella indotta dalle vaccinazioni. Queste nanostrutture potrebbero dunque essere usate come nano-gabbie per catturare particelle virali come il virus Chikungunya, Zika, SARS-Cov-2. L’efficacia a questo scopo è stata per ora osservata solo in laboratorio, attraverso esperimenti con cellule in coltura, come è stato riportato in un articolo pubblicato sulla rivista Cell Reports Physical Science nel 2023.

Ulteriori studi saranno dunque necessari per sfruttare le potenzialità della tecnica dei DNA-origami, valutandone promesse, rischi e benefici in accurati studi preclinici e clinici.

  • Alice Pace

    Giornalista scientifica freelance specializzata in salute e tecnologia, anche grazie a una laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche e un dottorato in nanotecnologie applicate alla medicina. Si è formata grazie a un master in giornalismo scientifico presso la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste e una borsa di studio presso la Harvard Medical School di Boston. Su Instagram e su Twitter è @helixpis.