Ultimo aggiornamento: 12 luglio 2021
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In questo articolo risponderemo alle domande:
“Il modo più fruttuoso per scoprire un nuovo farmaco è partire da un vecchio farmaco.” Le parole di James Black, farmacologo e premio Nobel per la fisiologia o la medicina 1988, sono senza dubbio incoraggianti per chi si occupa di ciò che in inglese si chiama oggi drug repurposing o drug repositioning e che in italiano si chiama riposizionamento di farmaci.
In pratica ciò significa cercare e testare nuovi utilizzi per farmaci già approvati dalle autorità regolatorie (per l’Italia l’Agenzia europea delle medicine, o EMA, e l’Agenzia italiana del farmaco, o AIFA). Il riposizionamento può essere considerato anche per molecole non ancora in commercio, ma già utilizzate in studi clinici, ovvero le cosiddette “investigational drug”.
Gli esempi di riposizionamento sono tanti e alcuni anche piuttosto famosi. Basti pensare al sildenafil, molto più noto come la “pillola blu” o con il suo nome commerciale, Viagra: nato in origine per trattare l’angina pectoris, è oggi utilizzato e conosciuto anche e soprattutto per trattare la disfunzione erettile.
Altro caso è quello del minoxidil, usato in origine contro l’ipertensione ma oggi utilizzato anche contro la perdita dei capelli poiché, tra gli effetti collaterali, dà irsutismo, ovvero fa crescere i peli.
In oncologia si è scoperta l’efficacia contro il mieloma multiplo della talidomide, usata in passato contro la nausea in gravidanza, ma ritirata dal mercato per i gravi danni di salute che causava ai feti e quindi ai bambini nati da madri che ne avevano fatto uso.
Uno dei principali vantaggi del repurposing è il fatto che questo approccio permette di dare un taglio netto ai tempi necessari per portare un farmaco al letto del paziente. Come si legge in un articolo pubblicato su Signal Transduction and Targeted Therapy, una rivista del gruppo Nature, lo sviluppo di un nuovo farmaco richiede in media 13 anni. Con il repurposing, parametri importanti come la farmacocinetica, la farmacodinamica e il profilo di tossicità della nuova molecola sono già studiati, per cui è possibile saltare le fasi iniziali della ricerca e passare direttamente agli studi clinici sull’efficacia. Ecco allora che, dai 10-17 anni necessari per lo sviluppo di un nuovo farmaco, si scende a 3-9 anni in caso di riposizionamento. Ciò permette di ridurre fortemente i costi di sperimentazione e sviluppo.
Sempre secondo l’articolo già citato in precedenza, negli Stati Uniti solo il 5 per cento dei farmaci oncologici che entrano negli studi di fase 1 viene poi approvato dalle autorità regolatorie (Food and Drug Administration, FDA). Inoltre, meno di un farmaco su tre supera la fase iniziale, detta di discovery, e passa alle fasi successive. Proprio questa fase di discovery è responsabile di circa il 35-40 per cento dei costi e del tempo necessario per lo sviluppo di un farmaco.
Fino a qualche tempo fa il riposizionamento di un farmaco era frutto più di un caso fortuito che di una vera e propria analisi mirata. Si notava per esempio – come nel caso del minoxidil – un effetto collaterale che poteva diventare un vantaggio per alcuni pazienti con altri problemi.
Oggi il riposizionamento è il risultato di una ricerca attenta che si avvale delle più sofisticate tecnologie di biologia, chimica e informatica.
In genere, partendo da speciali banche nelle quali sono raccolte migliaia di molecole (incluse alcune già approvate per l’uso in clinica), i ricercatori che si occupano di cancro valutano in modo sistematico quali di questi composti potrebbero essere candidati per un futuro utilizzo in oncologia. In alcuni casi si procede con un approccio computazionale, che prevede di analizzare enormi quantità di dati riguardanti caratteristiche come l’espressione genica e la forma delle molecole. Questo passaggio può essere fatto simulando per esempio le interazioni tra le molecole disponibili e potenziali bersagli presenti sulle cellule tumorali. In alternativa si può procedere con tecniche che permettono di valutare contemporaneamente centinaia di composti in vitro o in vivo. In uno studio i cui risultati sono stati pubblicati su Nature Cancer, grazie a un approccio di questo secondo tipo, i ricercatori hanno studiato l’effetto di 4.500 molecole in quasi 600 linee cellulari tumorali umane, scoprendo così nuovi potenziali candidati per future terapie. Tra le molecole considerate promettenti, alcune non hanno proprio nulla a che vedere con il cancro ma sono attualmente in uso contro malattie come il diabete, la dipendenza da alcol e persino l’artrosi del cane.
Per quanto detto finora potrebbe sembrare che il riposizionamento sia un approccio molto promettente, ma non bisogna dimenticare gli ostacoli che si possono presentare lungo il percorso di repurposing.
Innanzitutto non è semplice avere a disposizione tecnologie e competenze per programmi sistematici di riposizionamento. Di conseguenza, queste ricerche non possono essere portate avanti da tutti i laboratori. Ci sono anche ostacoli clinici e biologici non trascurabili: un farmaco che funziona bene a un certo dosaggio per la sua indicazione originale può richiedere “aggiustamenti” notevoli in termini di dosaggio e di tipo di somministrazione prima di poter essere utilizzato in modo efficace per trattare un’altra condizione.
Inoltre, il fatto di partire da una solida base – ovvero gli studi già portati a termine per la molecola nella sua indicazione originale – riducono ma non eliminano del tutto il rischio di fallimento. Un’eventualità di cui ricercatori e aziende devono tenere conto.
Infine, è necessario fare i conti con aspetti burocratici e con i brevetti da cui possono essere coperte alcune delle molecole che si intende riproporre per un nuovo utilizzo. Anche questi fattori potrebbero complicare il processo di riposizionamento, allungando i tempi necessari e, in alcuni casi, aumentando anche i costi.
Agenzia Zoe