Ultimo aggiornamento: 29 ottobre 2024
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Il fegato è il più grande organo interno del corpo umano. È situato nella parte superiore destra dell’addome ed è diviso in 2 lobi: uno sinistro più piccolo e uno destro più grande. A quest’organo arrivano 2 grandi collettori di sangue, l’arteria epatica e la vena porta, e dal fegato escono 3 grandi vene che riversano nella circolazione generale i prodotti della sua attività.
Il fegato è fondamentale per mantenere un buono stato di salute e, sottoponendolo a esami, è spesso possibile ricevere importanti indicazioni sulle condizioni dell’intero organismo. Questo perché il fegato trasforma qualsiasi sostanza presente nel sangue e assorbita dall’intestino in prodotti utilizzabili dall’organismo o in scarti da eliminare. In aggiunta a questa funzione di pulizia e regolazione del metabolismo umano, il fegato produce la bile e molti enzimi necessari alla digestione.
Il tumore del fegato è provocato dalla proliferazione incontrollata delle cellule epatiche, le quali hanno già da sole un’intrinseca capacità di riprodursi e rigenerarsi. Le cellule epatiche da cui possono originare tumori sono di due tipi: gli epatociti, la popolazione cellulare più numerosa, e i colangiociti, le cellule di rivestimento dei dotti biliari, che trasportano la bile in canalicoli sempre più grandi sino alla cistifellea o direttamente all’intestino.
Oltre ai tumori primitivi, che cioè si originano nelle cellule epatiche (epatocarcinomi e colangiocarcinomi), è importante ricordare che il fegato può essere spesso sede di tumori secondari, cioè di metastasi di tumori che si sono originariamente sviluppati in altri organi. Grazie alla funzione di filtro del sangue dell’intero organismo, il fegato, insieme ai polmoni, è l’organo in cui è più frequente osservare metastasi di altri tumori, le cui cellule si sono verosimilmente disseminate grazie alla circolazione sanguigna.
Il tumore del fegato rappresenta globalmente il quinto tumore più frequente nel mondo. L’incidenza del tumore epatico varia molto a seconda delle zone geografiche ed è notevolmente più diffuso in Asia rispetto a Stati Uniti ed Europa. Secondo i dati del Global Cancer Observatory, il tumore del fegato rappresenta circa il 5 per cento di tutti i tumori diagnosticati nel 2020 ed è la terza causa di morte per neoplasia: nel 2020 oltre 830.000 persone nel mondo sono morte di cancro al fegato. In Italia, le stime relative al 2023, riportate dal rapporto AIOM-AIRTUM “I numeri del cancro 2023”, parlano di circa 12.200 nuovi casi di tumori primari del fegato, 2 volte più frequenti tra gli uomini che tra le donne. Il tumore primario del fegato rappresenta quindi il 3 per cento circa di tutti i casi di tumore diagnosticati ogni anno a livello nazionale.
Sono invece più frequenti i tumori secondari, ovvero le metastasi che colonizzano il fegato provenendo da altri organi.
In termini di sopravvivenza, il tumore del fegato rappresenta ancora oggi uno dei tumori più difficili da trattare e curare, soprattutto perché spesso viene diagnosticato quando è già in fase avanzata. In Italia si stima che la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi sia del 22 per cento circa, sia per gli uomini sia per le donne, con ampie variazioni che dipendono dallo stadio in cui il tumore viene diagnosticato. Risultati vicino al 70-80 per cento si possono osservare, per esempio, per le forme inziali di malattia sottoposte a trapianto o ad altre terapie curative.
Come si verifica per molte neoplasie, anche per il tumore del fegato sono stati identificati fattori di rischio modificabili e non modificabili. Tra questi ultimi vi sono l’età (il rischio aumenta con l’aumentare dell’età), il genere (la malattia è più comune negli uomini che nelle donne) e la presenza di alcune malattie rare, come malattie genetiche associate a enzimi difettosi. È il caso, per esempio, della tirosinemia, delle malattie da accumulo di glicogeno o della malattia di Wilson, legata a un difetto nel metabolismo del rame.
Molti sono però i fattori di rischio modificabili, sui quali cioè si può agire modificando la propria esposizione all’agente nocivo e quindi il rischio che faccia danni. Tra questi ci sono l’infezione cronica da virus dell’epatite B e dell’epatite C (HBV e HCV), il consumo di alcol, l’obesità e il diabete mellito, che possono portare alla cirrosi. Inoltre, soprattutto in popolazioni provenienti da Paesi a basso e medio reddito, si osserva che la neoplasia può derivare dall’esposizione ad aflatossine, delle tossine prodotte da funghi parassiti che possono colonizzare i depositi di arachidi, riso, soia e grano. In Paesi dove esistono norme più severe per la conservazione degli alimenti, questo tipo di contaminazione è più rara.
I tumori primitivi del fegato originano generalmente dagli epatociti, che danno luogo agli epatocarcinomi, o dai colangiociti, da cui si sviluppano i colangiocarcinomi. Questi ultimi posso essere colangiocarcinomi intraepatici (se partono dalle cellule di rivestimento dei dotti biliari all’interno del fegato) o extraepatici (se nascono dai dotti biliari al di fuori del fegato e diretti all’intestino). Da segnalare anche l’epatoblastoma, un tumore raro del fegato osservato nei bambini o nei giovani adulti.
I tumori primitivi del fegato in genere non migrano in altri organi per una lunga parte della loro crescita, ma si diffondono precocemente all’interno del fegato stesso dando origine ai cosiddetti tumori multifocali, ovvero a multiple localizzazioni dello stesso tumore all’interno dell’organo.
Le neoplasie più frequenti che colpiscono il fegato sono però secondarie, cioè derivano da tumori che nascono altrove (per esempio nel colon, nella mammella o nel polmone) per poi diffondersi al fegato come sede delle metastasi.
In genere il tumore del fegato è asintomatico nelle fasi iniziali. Via via che la malattia si diffonde iniziano a comparire i sintomi, tra i quali il dolore alla parte superiore dell’addome, che si può irradiare anche alla schiena e alle spalle. L’ingrossamento del ventre che può essere legato a un aumento di dimensioni dell’organo o anche alla formazione di liquido (ascite), la perdita di peso e di appetito, la nausea, il vomito, la sensazione di sazietà, la stanchezza, l’ittero (ovvero il colore giallo della pelle), la colorazione scura delle urine e la febbre sono sintomi in genere caratteristici delle fasi più avanzate della malattia. Alcuni dei sintomi elencati sono poco specifici e possono presentarsi anche in malattie del tutto diverse. In ogni caso vanno riferiti al medico, che valuterà la situazione.
Attualmente l’unico modo per prevenire la patologia consiste nell’evitare i più comuni fattori di rischio, che comprendono l’esposizione ai virus dell’epatite B e C, il fumo, il consumo eccessivo di alcol, e le abitudini che favoriscono il sovrappeso e l’obesità, con alterazioni del metabolismo.
È opportuno che i pazienti più a rischio, ovvero quelli con malattie croniche del fegato o con cirrosi, rimangano sotto controllo medico, sottoponendosi a programmi di sorveglianza. Questi in genere prevedono il dosaggio nel sangue del marcatore alfa-fetoproteina (AFP) associato a ecografie periodiche, in genere ogni 6 mesi, per individuare eventuali formazioni tumorali epatiche in fase iniziale e quindi più curabili.
Un’altra misura molto efficace di prevenzione è la vaccinazione per l’epatite B, che in Italia dal 1991 è obbligatoria per tutti i nuovi nati. Per quanto riguarda l’epatite C non sono attualmente disponibili vaccini, ma esistono farmaci antivirali che hanno reso possibile negli ultimi anni l’azzeramento dell’infezione in un’elevata percentuale di casi. Invece l’epatite A, per la quale esiste un vaccino comunemente usato da chi viaggia in paesi tropicali con scarsa igiene, non aumenta il rischio di ammalarsi di tumore del fegato.
In caso di infezione cronica da virus dell’epatite B o C, è opportuno farsi seguire da centri con adeguata esperienza e trattare l’infezione virale con farmaci adeguati per ridurre il rischio di sviluppare un tumore. Anche in corso di trattamento, o una volta raggiunta la negativizzazione virale, rimane di fondamentale importanza proseguire i controlli come suggerito dai centri specialistici.
Il primo passo verso la diagnosi di un tumore del fegato avviene durante la visita del paziente e la valutazione dei suoi esami da parte del medico, che prende in considerazione anche la storia personale e familiare e verifica la presenza di eventuali segni e sintomi di patologie croniche del fegato.
Attraverso esami di laboratorio (sangue e urine) si possono ottenere informazioni sul funzionamento del fegato e dati che possono suggerire la presenza di un tumore o fornire un quadro della salute generale del paziente. Molto importanti sono gli esami di diagnostica per immagini, a partire dall’ecografia, per arrivare alla tomografia computerizzata (TC), alla risonanza magnetica nucleare (RMN), all’angiografia per verificare lo stato dei vasi sanguigni che arrivano al fegato o alla scintigrafia per valutare la presenza nel fegato di più noduli tumorali (multifocalità) o di eventuali metastasi in sedi occulte. Negli ultimi anni anche la PET si è aggiunta all’armamentario degli esami diagnostici.
La biopsia, ovvero il prelievo di un frammento di tessuto del fegato, può essere difficile e gravata da complicanze se non praticata adeguatamente. In molti casi la biopsia epatica può essere evitata nella diagnosi di cancro epatico, anche se si tratta di una pratica tornata in auge per alcuni casi complessi, poiché consente di determinare alcuni fattori biologici che aiutano a predire la prognosi.
Una volta che si è accertata la presenza di un tumore del fegato, il passo successivo è la cosiddetta stadiazione, in cui si stabilisce lo stadio a cui è giunta la malattia, il grado di diffusione, le dimensioni e la tendenza alla espansione, per poter scegliere il miglior approccio terapeutico. Per la stadiazione del cancro al fegato si utilizzano i sistemi BCLC e TNM, specifici per questo tipo di tumore.
Con il sistema BCLC (da Barcelona Clinic Liver Cancer) si prende in considerazione il numero e la dimensione dei noduli tumorali presenti nel fegato, la salute generale del paziente (performance score) e il funzionamento generale del fegato stesso (attraverso il punteggio di Child-Pugh). In questo caso i tumori del fegato vengono classificati in 5 stadi di progressiva gravità. Utile alla definizione della compromissione della funzione epatica è anche il sistema MELD (sigla che sta per Model of End-stage Liver Disease).
Con il sistema TNM si valuta invece il solo problema oncologico, prendendo in considerazione l’estensione o dimensione del tumore (T), il coinvolgimento dei linfonodi (N) e la presenza di metastasi (M). Il sistema TNM identifica 4 stadi di progressiva gravità, da I a IV.
Il tumore del fegato è oggettivamente complesso da curare perché occorre trattare la neoplasia e contemporaneamente l’intero fegato, la cui funzione, vitale per l’organismo, non può essere compromessa. Per questo è importante che la decisione terapeutica più adeguata sia presa in centri di provata esperienza e ampia casistica, informando correttamente i pazienti, che devono diventare parte attiva delle decisioni che li riguardano.
La probabilità di guarigione è influenzata dallo stadio della malattia e dallo stato di salute generale del paziente, a sua volta associato alla funzione residua del fegato. In linea generale, più un tumore è diagnosticato in fase precoce e maggiore è la possibilità che il paziente possa sopportare l’intervento chirurgico o le terapie mediche e interventistiche che possono essere applicabili. Negli stadi in cui la compromissione della funzione epatica è significativa non vi è che il trapianto, quando possibile, a poter correggere la situazione.
L’intervento chirurgico di asportazione del tumore rappresenta un importante approccio di trattamento. Sulla base delle diverse caratteristiche del paziente e della situazione della sua neoplasia, il chirurgo può optare per la rimozione di una parte del fegato con una procedura di resezione epatica o epatectomia. Gli interventi di resezione epatica del tumore possono essere eseguiti sia per via mini-invasiva (laparoscopica) che in modo tradizionale (laparotomica). In tutti i casi è necessario che la parte restante di fegato dopo una resezione sia sufficiente a svolgere le normali funzioni epatiche.
Un’opzione chirurgica più radicale è il trapianto di fegato. Esso viene preso in considerazione in base a specifici criteri che definiscono i “candidati ideali” all’intervento (che richiede comunque la disponibilità di un organo compatibile da trapiantare). In questo ambito l’Italia ha dato un contributo fondamentale con la definizione dei Criteri di Milano, proposti dal gruppo tuttora attivo presso l’Istituto nazionale dei tumori (INT) di Milano. Questi criteri (tumore singolo fino a 5 centimetri di diametro o tumori multipli ma non più di 3 noduli, ciascuno non superiore a 3 centimetri di diametro) sono stati modificati più volte ma rimangono il termine di paragone principale (benchmark) in ragione della prevedibilità di risultato che permettono di ottenere (circa il 75 per cento di probabilità di guarigione).
Se gli interventi chirurgici di resezione o trapianto non sono applicabili, si può comunque procedere con diverse terapie antitumorali dirette, dette in gergo terapie loco-regionali. Un esempio è la termoablazione, ovvero la distruzione diretta dei noduli tumorali per mezzo di aghi speciali in grado di scaldarsi nella loro porzione terminale sino a distruggere le cellule tumorali con il calore o con micro-onde. Un’altra possibilità è la chemioembolizzazione (TACE), che permette di portare i farmaci chemioterapici direttamente al fegato attraverso i vasi sanguigni che trasportano nutrimento all’organo, bloccando tali vasi con un meccanismo embolico espletato da particelle di materiale inerte. L’evoluzione più sofisticata della chemoembolizzazione è rappresentata dalla radioembolizzazione, che utilizza microsfere di diametro di pochi micron (più piccole di un batterio) caricate in laboratorio con un isotopo radioattivo (Yttrio90) in grado di emettere radiazioni ionizzanti per effetto del suo decadimento nel tempo.
Infine, non meno importanti sono i trattamenti sistemici, cioè i trattamenti con farmaci in grado di diffondersi non solo nel fegato ma in tutto il corpo. Sono basati su farmaci a bersaglio molecolare, come gli inibitori tirosin-chinasici, detti TKI (sorafenib, lenvatinib, regorafenib e cabozantinib), e farmaci immunoterapici (atezolizumab, tremelimumab e durvalumab), che agiscono non attraverso la distruzione diretta delle cellule tumorali ma attivando il sistema immunitario del paziente contro il tumore stesso. Gli immunoterapici in combinazione tra loro o con i TKI hanno dimostrato non solo di aumentare la sopravvivenza di pazienti con malattia in fase avanzata, ma anche di migliorare la qualità di vita. I risultati di queste combinazioni sono talmente promettenti da pensare di utilizzarli in fasi più precoci di malattia, per esempio anche prima o dopo la chirurgia resettiva per impedire la recidiva o in fase intermedia (insieme alla chemoembolizzazione o radioembolizzazione). Oppure per tentare di garantire a più pazienti l’accesso al trapianto di fegato, che al momento è l’unica opzione terapeutica in grado di azzerare sia il tumore sia la cirrosi. Anche le terapie sistemiche richiedono una buona funzione epatica di base, per evitare lo scompenso epatico e impedire così la cura diretta della neoplasia.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Agenzia Zoe