Ultimo aggiornamento: 1 ottobre 2021
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La leucemia a cellule capellute (in inglese hairy cell leukemia, HCL) è una rara forma di tumore del sangue a crescita molto lenta che è causata dalla trasformazione tumorale dei linfociti B, un tipo particolare di globuli bianchi.
I linfociti B maturi normalmente difendono l'organismo dagli agenti patogeni: da queste cellule derivano infatti le plasmacellule che producono gli anticorpi.
Nella leucemia a cellule capellute, chiamata anche tricoleucemia, i linfociti mutati, divenuti cellule tumorali, crescono eccessivamente e si accumulano nell'organismo (specialmente nel midollo osseo e nella milza) sostituendosi alle cellule normali del sangue. La malattia prende il nome dai tanti prolungamenti che ricordano capelli, e che si vedono sulla superficie di queste cellule quando si esaminano gli strisci di sangue al microscopio.
L’HCL è una malattia piuttosto rara, rappresenta circa il 2 per cento di tutte le leucemie linfoidi.
È tipica dell'età adulta, con un'età media dei pazienti al momento della diagnosi intorno ai 55 anni, ed è cinque volte più comune negli uomini che nelle donne.
A parte l’età avanzata e il sesso maschile, non sono ancora stati identificati con certezza altri fattori di rischio.
Poiché l’HCL deriva dai linfociti B, essa può essere definita una leucemia di origine linfoide.
L’evoluzione della malattia è lenta, perciò l’HCL viene classificata tra le leucemie croniche.
La malattia ha uno sviluppo lento e i pazienti con HCL spesso non presentano alcun sintomo per lunghi periodi o scoprono di avere la leucemia per caso, nel corso di esami effettuati per altri motivi.
Quando presenti, i sintomi sono di solito generici, lievi e comuni ad altre malattie: stanchezza, pallore, fiato corto, infezioni e sensazione di pienezza dell'addome dovuto all’ingrossamento di milza che è riscontrabile nell’85 percento circa dei pazienti.
Dal momento che i fattori di rischio per l’HCL non sono certi, non è possibile definire una strategia di prevenzione della malattia.
Nella maggior parte dei casi, il percorso che porta alla diagnosi dell’HCL inizia con il riscontro, in un prelievo di sangue di routine, della diminuzione del numero dei globuli rossi e/o globuli bianchi e/o piastrine. Quando si osserva un decremento nei valori di tutti gli elementi del sangue periferico, si parla di pancitopenia. Altri pazienti arrivano, invece, a consultare il medico perché in una ecografia dell’addome di routine è stato riscontrato un aumento delle dimensioni della milza oppure perché lamentano sintomi legati all’anemia e/o all’ingrandimento della milza.
In caso si sospetti l’HCL, si procede a valutare al microscopio l’eventuale presenza di cellule leucemiche "capellute" nello striscio di sangue venoso periferico.
La diagnosi si ottiene dimostrando la presenza di specifiche molecole sulla superficie delle cellule leucemiche sia nel sangue periferico (tipizzazione immunologica) sia nel midollo osseo (immunoistochimica della biopsia osteomidollare). Una ulteriore conferma diagnostica può venire dalla dimostrazione della presenza della mutazione del gene BRAF (BRAF-V600E), che è piuttosto specifica per l’HCL.
L’evoluzione è in genere molto lenta. In alcuni pazienti la malattia rimane stabile per anni.
A differenza di quanto avviene per altri tumori ematologici, non esiste un sistema standardizzato per classificare la leucemia a seconda della gravità (stadiazione).
Con il moderno armamentario terapeutico, la sopravvivenza media dei pazienti affetti da HCL appare solo lievemente inferiore a quella della popolazione sana della stessa età.
Per le caratteristiche di lenta progressione dell’HCL e per il suo carattere spesso asintomatico, non è sempre necessario iniziare il trattamento subito dopo la diagnosi. È possibile, infatti, ricorrere inizialmente a una strategia di vigile attesa, che consiste nel tenere sotto controllo la malattia con visite mediche ed esami di laboratorio periodici (esame del sangue ed ecografia addominale). Solo dopo la comparsa dei primi sintomi e/o il significativo decremento di uno o più dei valori delle cellule del sangue si procede con la terapia vera e propria.
In passato l'asportazione della milza (splenectomia) tramite chirurgia era l'approccio principale. Oggi, invece, l'intervento chirurgico si effettua solo in rare circostanze.
L’interferone-alfa si è rivelato il primo farmaco veramente efficace nei confronti dell’HCL ma attualmente è poco utilizzato. Il trattamento di elezione per l’HCL è oggi rappresentato dalla somministrazione di chemioterapici definiti “analoghi delle purine” (cladribina e pentostatina), che permettono di raggiungere una remissione completa della malattia nel 95-100 per cento dei casi. Tale remissione può durare anche per molti anni, ma nel 50 per cento dei pazienti la malattia tende a ripresentarsi con una recidiva. L'anticorpo monoclonale rituximab (diretto contro la molecola CD20 espressa dai linfociti B) viene solitamente utilizzato in combinazione con la chemioterapia solo nei casi in cui la malattia si ripresenti dopo un periodo di remissione superiore a due anni. Se l’HCL non risponde agli analoghi delle purine, se dopo la somministrazione dei chemioterapici la recidiva è precoce (entro i primi due anni dall’inizio della remissione) e nei pazienti dalla seconda recidiva in poi, si preferisce somministrare l’inibitore dell’enzima BRAF (vemurafenib) in combinazione con il rituximab. Tale strategia terapeutica è stata sviluppata da ricercatori italiani con il sostegno di AIRC e permette di raggiungere una remissione completa in più del 90 per cento dei pazienti che non rispondono agli analoghi delle purine. Negli USA è disponile anche un anticorpo anti-CD22 (moxetumomab), tuttavia i risultati sono inferiori a quelli ottenibili con vemurafenib + rituximab.
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Agenzia Zoe