Ultimo aggiornamento: 5 agosto 2024
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Edward Jenner era un medico inglese di campagna che, alla fine del Settecento, ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei vaccini contro le malattie infettive. All’epoca il vaiolo era una patologia grave, tra le più temute e incontrollabili, dato che uccideva milioni di persone. Tuttavia, tra coloro che si occupavano di mungere le vacche, era frequente una resistenza alle forme più letali. Oggi sappiamo che la resistenza è dovuta al fatto che queste persone spesso si ammalavano della forma bovina del vaiolo, che provocava una malattia leggera, visibile per la formazione di pustole sulle mani. Queste stesse persone in genere non si ammalavano della forma umana della malattia, ben più grave e devastante, poiché erano protette da un’immunità indotta dalla forma bovina. Jenner, al corrente di questi effetti protettivi, decise di fare un esperimento. Prelevò un po’ di pus dalle vescicole provocate dal vaiolo bovino e lo inoculò in un ragazzino, attraverso una piccola incisione sulla pelle del braccio. Il ragazzino si ammalò della più lieve forma bovina, manifestata dalle tipiche lievi lesioni sulla pelle e si riprese prontamente. A questo punto Jenner lo espose a materiale proveniente da pustole di malati di vaiolo umano e il piccolo non si ammalò. La prova effettuata di Jenner su questo piccolo paziente inconsapevole fu, a tutti gli effetti, la prima sperimentazione umana del principio della vaccinazione.
All’epoca Jenner non sapeva esattamente perché esporre un individuo al materiale infetto di animali colpiti da una determinata malattia riuscisse a preservare l’individuo da un contagio successivo con la ben più grave malattia umana. Oggi sappiamo che tale protezione deriva da una sorta di “addestramento” del sistema immunitario. Nello specifico, la forma virale bovina, meno virulenta di quella umana, aveva permesso al sistema immunitario del bambino di familiarizzare con le molecole, tra cui proteine e zuccheri di tale virus, simili a quelle del virus umano. Tali molecole, anche dette antigeni, sono le parti, per esempio di un microrganismo, che il nostro sistema immunitario riconosce come estranee. Per questo gli antigeni batterici o virali sono comunemente usati quale ingrediente principale dei vaccini: permettono al sistema immunitario di conoscere le loro fattezze e di riconoscerle in caso di una successiva infezione.
Nei vaccini più vecchi si utilizzano virus o batteri interi, uccisi oppure vivi e attenuati in modo che non siano pericolosi. La vaccinazione addestra dunque il sistema immunitario a rispondere velocemente a una minaccia e ad attaccare e distruggere più rapidamente ed efficacemente i patogeni.
Sul principio di quel primo esperimento sul vaiolo delle vacche si sono basati per oltre due secoli tutti i vaccini moderni, il cui scopo era la prevenzione del contagio o delle complicanze di alcune malattie infettive. Il termine vaccino è stato coniato dal microbiologo francese Louis Pasteur, a fine Ottocento, proprio in onore di Edward Jenner.
Parlano chiaro le sperimentazioni cliniche condotte nel corso degli anni sui vaccini e le osservazioni epidemiologiche su miliardi di persone vaccinate nel mondo reale: i vaccini funzionano e sono in grado di proteggere la popolazione da malattie molto gravi, a volte anche mortali. Tra le più importanti dimostrazioni di sicurezza ed efficacia vi è il fatto che nel 1980 il vaiolo è stato dichiarato ufficialmente scomparso a livello mondiale (in termini tecnici si dice che è stato “eradicato”) e che malattie come la poliomielite, la difterite, il tetano, la pertosse, la rosolia e molte altre, un tempo comunissime, sono ormai estremamente rare.
Ma i vaccini non sono tutti uguali, come abbiamo imparato molto recentemente per via della pandemia di Covid-19. In un certo senso potremmo dire che ci sono diversi strumenti con cui istruire il nostro sistema immunitario contro un virus o un batterio. In tutti i casi l’idea di base resta la stessa, ovvero presentare un antigene al sistema immunitario prima che avvenga un’infezione. Le modalità con cui però si effettua questa presentazione possono variare, come si legge sul sito di Epicentro, il portale di epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità.
I vaccini vivi attenuati (per esempio quelli più vecchi, contro morbillo, rosolia, parotite e varicella) sono prodotti in modo che i microrganismi contenuti siano incapaci di provocare la malattia. I vaccini inattivati sono invece quelli, per esempio, contro l’epatite A e la poliomielite e sono costituiti da virus o batteri uccisi con calore o sostanze chimiche. Esistono anche vaccini ad antigeni purificati (come quello contro il meningococco), ottenuti con tecniche che permettono di isolare solo alcune componenti del microrganismo, o vaccini ad anatossine (per esempio quelli contro il tetano e la difterite), che si basano su molecole prodotte dal microrganismo infettivo, modificate affinché siano in grado di attivare il sistema immunitario senza però causare danni.
Tecnologie molecolari più avanzate hanno permesso di generare anche vaccini proteici ricombinanti (come quelli usati oggi contro l’epatite B) che contengono solo una proteina del patogeno ottenuta dal relativo gene inserito in cellule modificate geneticamente. Infine, i più recenti sono i vaccini a mRNA, come quelli sviluppati da Pfizer-BioNTech e Moderna, messi in commercio contro il coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di Covid-19. Questi vaccini contengono non un antigene, ma le istruzioni, sotto forma di mRNA, affinché le nostre cellule possano produrlo in autonomia.
Alcuni vaccini che prevengono l’infezione da parte di alcuni tipi di virus, come quello dell’epatite B (HBV) o del papilloma umano (HPV), evitano anche rispettivamente il cancro del fegato e della cervice uterina indotta da tali virus. I vaccini anticancro preventivi sono, quindi, vaccini contro malattie infettive, che hanno l’ulteriore effetto secondario positivo di ridurre fortemente il rischio di ammalarsi di determinati tipi di tumori, favoriti o direttamente provocati dal contagio con alcuni virus. Tali vaccini non hanno, quindi, un effetto diretto, per esempio, sul tumore del collo dell’utero (nel caso del vaccino anti-HPV) o del fegato (nel caso del vaccino contro l’epatite B). Prevengono semplicemente le infezioni che inducono infiammazioni croniche o mutazioni dirette, che sono a loro volta la causa dei tumori. Per questo hanno di fatto anche un’azione preventiva di tipo oncologico.
Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono convinti che, grazie all’efficacia del vaccino anti-HPV e ad altri strumenti di prevenzione e di screening, il tumore della cervice potrebbe essere eliminato a livello globale entro la fine del XXI secolo. E a questo proposito hanno lanciato un’iniziativa globale che, per la prima volta nella storia, punta a eliminare definitivamente un tumore.
Con il termine vaccino anticancro in genere ci si riferisce ai vaccini terapeutici. Sono detti terapeutici perché sono a tutti gli effetti terapie. Sono quindi indirizzati a pazienti che hanno già un tumore, e lo scopo è curare la malattia, non prevenirla. Si usa un po’ impropriamente il termine vaccino perché anche in questo caso si stimola il sistema immunitario a riconoscere ed eliminare qualcosa che è dannoso per l’organismo.
Il sistema immunitario è una rete di cellule, tessuti, organi e sostanze in grado di combattere le infezioni da parte di agenti esterni. Inoltre, protegge l’organismo dalla minaccia costituita da cellule danneggiate o anomale che, se non sono eliminate, possono proliferare e dare origine a un cancro.
I globuli bianchi, o leucociti, pattugliano il nostro corpo alla ricerca di agenti infettivi o di cellule anomale per distruggerli. Il riconoscimento dei pericoli dipende dalla presenza di specifici antigeni, che funzionano come bandierine di riconoscimento: se appartengono all’organismo, il sistema immunitario evita di attaccare; se sono estranei, i sistemi di difesa eliminano l’aggressore.
Le cellule tumorali possiedono antigeni particolari: in certi casi si tratta di lievi varianti proteiche, in altri casi si tratta di molecole che dovrebbero essere presenti solo nell’età embrionale ma non negli adulti; in altri ancora, si creano antigeni completamente nuovi (neoantigeni).
I vaccini anticancro terapeutici facilitano il riconoscimento degli antigeni delle cellule maligne così da attivare le cellule T citotossiche e indurre la produzione di anticorpi.
Lo sviluppo di questo tipo di terapie si è dimostrato particolarmente complesso anche per via della grande variabilità individuale: non è detto, infatti, che le caratteristiche molecolari dei tumori di due persone siano identiche, a parità di diagnosi.
Il primo vaccino anticancro per il tumore della prostata, il sipuleucel-T, è stato approvato nel 2010 dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense e nel 2013 dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA). È un vaccino prodotto per ogni singolo paziente a partire da cellule specializzate nel “catturare” gli antigeni e nel “mostrarli” alle cellule dendritiche, un tipo di linfociti. Isolate dal sangue dei malati, vengono messe in contatto con un antigene (la fosfatasi acida prostatica, presente nella maggior parte delle cellule di cancro della prostata) e attivate. Le cellule dendritiche così preparate vengono reinfuse nel sangue del paziente, dove incontrano i linfociti che si attivano a loro volta e distruggono le cellule del tumore della prostata. Il vantaggio offerto in termini di sopravvivenza è piuttosto limitato, mentre i costi sono molto elevati, tanto che l’azienda produttrice, nel 2015, ha chiesto all’EMA il ritiro dell’autorizzazione per ragioni commerciali.
Molti altri vaccini terapeutici anticancro sono in fase di studio, e tra questi diversi riguardano il tumore della mammella, come descritto nel dettaglio in un articolo pubblicato sulla rivista International Journal of Molecular Science.
L’Istituto nazionale dei tumori Fondazione Pascale di Napoli sta sperimentando la vaccinazione anticancro nel tumore del fegato. Il vaccino HepaVac-101 è costituito da 16 antigeni selezionati da tumori del fegato provenienti da centinaia di malati. Per ora un’ottantina di pazienti con carcinoma epatocellulare (HCC) in uno stadio iniziale o intermedio hanno ricevuto il vaccino assieme a una sostanza (adiuvante) che potenzia l’attivazione dei linfociti T. I primi risultati indicano che il vaccino è ben tollerato ed è in grado di indurre risposte antitumorali.
Il sistema immunitario ha il potenziale di eliminare i tumori. Lo scopo dei vaccini anticancro è addestrare il sistema immunitario dei pazienti a riconoscere le cellule tumorali. Il riconoscimento si basa sulla presenza di molecole, gli antigeni, specifici per le cellule del tumore. Per creare dei vaccini anticancro bisogna conoscere questi antigeni, che non sono uguali né tra i diversi tipi di cancro né in tutti i tumori dello stesso tipo.
La vaccinazione può essere fatta iniettando gli antigeni o prelevando cellule del sistema immunitario dei pazienti e mettendole in contatto con l’antigene in laboratorio, prima che queste siano reinfuse nel paziente stesso. Si tratta di terapie che vanno personalizzate e che possono essere estremamente costose. Molti ricercatori stanno dedicando i loro sforzi allo sviluppo di vaccini anticancro, una delle promesse dell’oncologia clinica per i prossimi anni.
Agenzia Zoe