Ultimo aggiornamento: 1 febbraio 2025
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Nessuna patologia è causata soltanto dal consumo di carne rossa. Tuttavia, gli epidemiologi concordano sul fatto che gli individui che seguono diete ricche di proteine animali, soprattutto carni rosse e lavorate, hanno un maggior rischio di sviluppare malattie croniche non trasmissibili come diabete, obesità, malattie cardiovascolari, renali e neurodegenerative, oltre a diverse forme di cancro e infezioni.
Riguardo ai tumori, il rischio aumenta soprattutto per quelli dell’apparato gastrointestinale, come il tumore del colon-retto e dello stomaco. Vi sono inoltre alcune evidenze rispetto al rischio di sviluppare altre neoplasie, come quelle del seno, dell’ovaio, della prostata e dell’endometrio. Nel 2015 l’International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione ha stabilito che la carne rossa è probabilmente cancerogena (classe 2A della sua classificazione) e che la carne rossa lavorata (insaccati e salumi) è sicuramente cancerogena (classe 1 della classificazione della IARC). La IARC è un’agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che valuta e classifica le prove di cancerogenicità delle sostanze. Tutti i dati che hanno portato a tale classificazione e le riflessioni sul tema sono contenuti e descritti in dettaglio in una monografia dedicata a “Carni rosse e lavorate”, pubblicata dagli esperti della IARC nel 2018 e basata sulla revisione di oltre 800 studi sull’argomento. Negli anni seguenti i risultati di queste ricerche sono stati confermati da tutti i singoli studi epidemiologici condotti a riguardo, tra cui quello pubblicato all’inizio del 2025 sulla rivista Nature Communications.
Il nesso tra alimentazione e sviluppo di una malattia si studia soprattutto attraverso le indagini epidemiologiche, in cui si osserva la frequenza di una determinata malattia all’interno di una popolazione e si cerca un’eventuale correlazione con possibili fattori di rischio. Nel caso dello studio degli effetti della dieta sulla salute, l’epidemiologia nutrizionale indaga e individua le relazioni esistenti tra determinati alimenti e l’insorgenza di malattie. Questi studi trovano quindi associazioni tra il maggiore o minore consumo di certi cibi e l’aumento o la diminuzione delle probabilità di sviluppare una determinata malattia. Non possono però consentire di stabilire la causa di un simile effetto: tutt’al più è possibile formulare delle ipotesi, sulla base di conoscenze già acquisite.
In ogni caso, valutare l’esposizione a un fattore di rischio è difficile. A variare sono infatti le quantità, le modalità di assunzione, il tempo e le dosi. Inoltre, negli studi epidemiologici questi dati sono spesso raccolti attraverso diari forniti ai partecipanti, per cui portano con sé un inevitabile limite legato al ricordo, alla precisione e alla sincerità che influiscono la qualità delle informazioni. A ciò occorre aggiungere che, per registrare un aumento dei casi di una malattia (tumore, ma non solo) rispetto al dato atteso occorrono grandi numeri e tempi lunghi di osservazione.
Individuare oltre ogni ragionevole dubbio la causa sottostante l’insorgere di una malattia finora è stato quindi possibile per poche sostanze, come il fumo di sigaretta e l’amianto, oggi considerati unanimemente i principali fattori di rischio per lo sviluppo della maggior parte delle neoplasie polmonari e del mesotelioma.
C’è molta confusione riguardo al significato della decisione della IARC di includere le carni rosse e le carni rosse lavorate rispettivamente nella classe 2A e nella classe 1 delle sostanze cancerogene. La decisione è stata presa dopo un’attenta revisione degli studi disponibili in merito, ma non significa che i salumi siano sempre e necessariamente più pericolosi della carne rossa fresca. La classificazione di cancerogenicità non è una classificazione del livello di rischio, ma una misura del grado di fiducia che gli esperti hanno nei dati per potersi esprimere sulla cancerogenicità di una sostanza o un prodotto. In pratica ciò ci dice soltanto che gli studi su salumi e insaccati hanno una qualità e un’ampiezza tale da farci dire con minore incertezza che i salumi possono aumentare il rischio di ammalarsi, mentre gli studi sulle carni rosse non lavorate sono statisticamente meno forti e quindi ci permettono solo di dire che probabilmente l’associazione esiste. Per quel che riguarda le carni bianche (pollame e coniglio), gli esperti affermano solo che non esistono studi sufficientemente attendibili e che quindi non possono pronunciarsi né in un senso né nell’altro. Ciò nonostante, la conoscenza dei meccanismi molecolari che rendono la carne rossa potenzialmente cancerogena (per esempio la presenza del ferro eme) permette di dire che le carni bianche sono probabilmente più sicure, dato che ne contengono, in generale, in piccolissima quantità. La classificazione della IARC, inoltre, non ci dice nulla sulla potenza di una sostanza nel provocare tumori. Molti giornali, al momento della diffusione della notizia del rapporto IARC, titolarono che la carne rossa lavorata è “cancerogena come il fumo”. Si tratta di una interpretazione non basata sui risultati delle ricerche. La carne rossa è inserita nella stessa categoria del tabacco, quella delle sostanze sicuramente cancerogene per gli esseri umani, perché per entrambe sono disponibili prove scientifiche sufficienti perché gli esperti possano esprimere un parere affidabile. Ma il fumo è un cancerogeno molto più potente degli insaccati, per cui una fetta di salame di tanto in tanto dovrebbe avere minore influenza sulla salute di un paio di sigarette.
Con i dati attualmente disponibili non è possibile fornire una risposta precisa a questa domanda. Gli studi epidemiologici valutano l’aumento del rischio sui grandi numeri e non a livello del singolo individuo. Gli esperti hanno stabilito che il 18-21% dei tumori al colon (e il 3% di tutti i tumori) sono probabilmente legati al consumo di carni rosse e insaccati. Per confronto, il fumo di sigaretta è responsabile dell’85-95% dei tumori al polmone.
In un documento pubblicato nel 2017 dal World Cancer Research Fund , si stima che un consumo elevato di carni rosse lavorate (50 grammi al giorno) aumenta del 16% circa il rischio di ammalarsi di cancro del colon-retto. Si tratta però del cosiddetto rischio relativo, che va cioè combinato con il rischio assoluto degli individui. Per esempio, le persone che hanno una malattia infiammatoria cronica intestinale (malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa) o una elevata familiarità per cancro del colon-retto hanno già condizioni che accrescono di molto il loro rischio di sviluppare un cancro colorettale. Mangiando insaccati in grande quantità lo accresceranno ulteriormente del 16% circa. Invece, persone che non hanno familiarità per il cancro del colon e hanno abitudini di vita salutari (non fumano, fanno esercizio fisico) partono da un rischio di sviluppare un tumore del colon-retto più basso. Quindi, se consumano spesso salumi, accresceranno il rischio di ammalarsi del 16%, ma il loro rischio di sviluppare il tumore resterà comunque molto basso perché complessivamente rischio assoluto e rischio relativo sono entrambi bassi.
Il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto sembra risentire anche della genetica. Secondo i risultati di uno studio, pubblicati sulla rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention, la presenza di due varianti dei geni Has2 e Smad7 aumenterebbe il rischio di sviluppare un tumore del colon-retto in caso di un consumo elevato di carne rossa e processata, del 30-40% circa rispetto al resto della popolazione. In altre parole, avere questa predisposizione genetica aumenterebbe di circa 3 volte la possibilità di sviluppare un tumore colorettale a parità di consumo elevato di questi alimenti, rispetto a chi non presenta tali caratteristiche genetiche.
Questi dati evidenziano quanto sia importante l’interazione tra geni e ambiente per quanto riguarda l’eventuale insorgenza del tumore del colon-retto.
La carne contiene prevalentemente proteine. Dal punto di vista biochimico tutte le proteine che costituiscono gli organismi viventi sono costruite nello stesso modo, tramite l’assemblaggio di venti amminoacidi uguali in tutte le specie, sia animali sia vegetali. Il colore delle carni rosse (manzo, maiale, agnello e capretto) è dato dalla presenza nei tessuti di due proteine imparentate fra loro: l’emoglobina e la mioglobina. Entrambe contengono una molecola, detta gruppo eme, con al centro un atomo di ferro. Il gruppo eme è la “trappola molecolare” che cattura le molecole di ossigeno e consente di far loro raggiungere i tessuti, che ne hanno bisogno per produrre energia. Per questo ne vengono immagazzinate grandi quantità nei muscoli, che si colorano di rosso.
Diversi studi indicano che il gruppo eme stimola nell’intestino la produzione di alcune sostanze cancerogene e provoca infiammazione nelle pareti intestinali. Un’infiammazione prolungata nel tempo, dovuta a una massiccia ingestione di carne rossa, aumenta le probabilità di sviluppare tumori del colon-retto, che è una delle neoplasie più comuni e una delle principali cause di morte per malattie oncologiche nei Paesi industrializzati, dove il consumo di carni rosse è molto diffuso. Non solo: le carni rosse possono essere lavorate mediante essicazione, salatura o affumicatura, e conservate con additivi come nitrati, nitriti e idrocarburi policiclici aromatici. Negli studi epidemiologici in generale si distingue il consumo di carne fresca da quello di salumi e insaccati, proprio per via della diversa composizione.
Non bisogna dimenticare infine che la carne contiene anche grassi, in proporzione variabile a seconda del tipo preso in considerazione: si va da un 1% circa delle carni bianche magre fino al 47% circa delle carni di maiale.
Nel 2013 sono stati pubblicati i risultati dello studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), promosso dall’Unione europea, dalla IARC e sostenuto anche da AIRC. Condotto con oltre mezzo milione di partecipanti in tutta Europa, lo studio ha confermato con i propri risultati un’associazione fra consumo di carni lavorate e morti premature per malattie cardiovascolari e cancro, soprattutto al colon-retto e al seno. I dati raccolti dallo studio EPIC hanno però anche dimostrato, di contro, che un consumo di piccole quantità di carne rossa ha effetti benefici per la salute, fornendo importanti vitamine e nutrienti specifici.
L’effetto mutageno della carne rossa fresca è attribuito soprattutto alla presenza del ferro nel gruppo eme (un potente ossidante). A questo rischio concorre probabilmente anche la capacità della carne di produrre sostanze che modificano la composizione delle colonie di batteri che risiedono nell’intestino. Diversi studi hanno poi mostrato che i processi di lavorazione e conservazione aumentano il rischio di sviluppare disturbi cardiovascolari e diabete. Quanto al cancro, il rischio esiste anche per i forti consumatori di carne fresca, anche se i meccanismi molecolari non sono ancora del tutto chiari. È probabile che la differente quantità di sale e conservanti contribuisca al diverso rischio tra carne rossa lavorata e non lavorata. Anche il già citato studio EPIC ha fornito osservazioni in questa direzione: il rischio di morire prematuramente di cancro o malattie cardiovascolari aumenta all’aumentare della quantità di carne lavorata consumata. Secondo EPIC le morti premature potrebbero essere ridotte del 3% circa ogni anno se le persone consumassero non più di 20 grammi di carne lavorata al giorno.
È bene chiarire che gli studi epidemiologici non fanno distinzioni sulla base della qualità del prodotto (carne di alta qualità o bassa, salumi artigianali o industriali). Per quel che riguarda le carni rosse non lavorate, però, una tale distinzione non avrebbe nemmeno senso, perché i composti che risultano mutageni (il ferro nel gruppo eme e alcune molecole che si formano nell’intestino durante la demolizione degli alimenti) sono proprietà intrinseche, che non dipendono dalla qualità della carne.
Su altri meccanismi studiati dalla IARC, come la modificazione del microbiota intestinale (i batteri che ci possono proteggere dalle sostanze mutagene) non si può, invece, al momento, fare una distinzione tra un tipo di proteina animale e l’altro, perché non sono disponibili informazioni sufficienti. Per essere precisi, attualmente non disponiamo di dati diretti di un’eventuale alterazione dell’equilibrio del microbiota intestinale causata dal consumo di carne rossa o lavorata. Esistono invece dati che indicano che un’alimentazione più ricca di fibre, frutta e verdura e più povera di alimenti processati e di origine animale è associata a un microbiota più sano e protettivo contro diverse malattie, tra cui il cancro.
La cottura della carne alla griglia o in padella ha molti vantaggi: le alte temperature uccidono i microrganismi e causano cambiamenti nella struttura chimica delle proteine aumentandone la digeribilità e il potenziale nutritivo. Tuttavia, durante la cottura si formano anche sostanze potenzialmente tossiche e cancerogene (come le ammine eterocicliche e gli idrocarburi policiclici aromatici), in particolare all’interno della classica “crosta bruciacchiata” della carne. Nel 2011 i risultati pubblicati sul British Journal of Cancer di uno studio condotto con 17.000 partecipanti hanno mostrato che chi consumava la carne più grigliata aveva una frequenza maggiore di cancro al colon del 56% circa e chi la consumava più cotta, del 59%. È sempre meglio evitare una cottura eccessiva a temperature troppo elevate e con la carne a contatto diretto con la fiamma. Si consiglia di rimuovere le parti nere e inoltre prediligere altre forme di cottura più sane, come la cottura al forno.
Per chi pensa di passare a una dieta vegetariana, occorre tenere conto degli studi che negli ultimi anni hanno messo in luce i benefici generali sulla salute di questo tipo di alimentazione, a patto che tali diete siano rigorosamente controllate, in modo da garantire un apporto nutrizionale completo. Tuttavia, al momento non esistono dati che indichino una relazione convincente tra rischio di malattie in assoluto (quindi non solo cancro) e un modesto consumo di proteine animali. Quando si parla di modificazioni drastiche dello stile di vita è bene prendere in considerazioni gli effetti complessivi di tali scelte e non solo per il rischio di cancro.
Nella storia dell’umanità non si è mai consumata così tanta carne e in modo così diffuso come oggi, per cui ci sono margini per una ragionevole riduzione, senza arrivare necessariamente a scelte drastiche. Il World Cancer Research Fund raccomanda non più di tre porzioni a settimana di carne rossa, che equivalgono a circa 350-500 grammi, e di evitare o limitare al massimo la carne rossa processata. Inoltre suggerisce di consumare almeno cinque porzioni di frutta e verdura, per un totale di almeno 400 grammi al giorno. L’Harvard School of Medicine restringe il limite di consumo di carni rosse a porzioni non superiori a 110-115 grammi, al massimo due volte a settimana. La IARC raccomanda di consumare una quantità di carne rossa non superiore a 500 grammi alla settimana per limitare il rischio di cancro. Le raccomandazioni sono generali e non sono necessariamente da tradursi in indicazioni individuali, dato che il proprio rischio di ammalarsi dipende anche da altri fattori, come appunto la familiarità e altri aspetti comportamentali e ambientali. Può darsi che per qualcuno sia opportuno ridurre o eliminare del tutto la carne rossa, anche se per la maggior parte delle persone basta consumarla con moderazione. Per questo è meglio valutare eventuali restrizioni alimentari con il medico di fiducia.
Una gran mole di studi condotti nel tempo ha dimostrato che un consumo abbondante di carne rossa, soprattutto se lavorata o cotta ad alte temperature, aumenta il rischio di sviluppare molte malattie, prima tra tutte il cancro al colon-retto. È bene quindi limitare il consumo di proteine animali ottenute da questa fonte e sostituire possibilmente la carne rossa con fonti di proteine magre, come pollo o pesce, o meglio ancora con proteine vegetali come i legumi. Infine, vanno fortemente limitate, se non evitate, le carni lavorate come i salumi e quelle molto cotte e abbrustolite.
In generale tre quarti di ciò che mangiamo complessivamente dovrebbe essere costituito da cibi vegetali.
Autore originale: Agenzia Zoe
Revisione di Fabio Di Todaro in data 29/01/2025
Agenzia Zoe