In questo articolo abbiamo cercato di rispondere, laddove possibile, alle molte domande dei malati di cancro sui vaccini anti-Covid-19 e di mettere in luce quanto ancora non sappiamo. Nei prossimi mesi aggiorneremo regolarmente questa pagina per stare al passo su un argomento in rapida evoluzione.
A oggi, cinque vaccini anti-Covid-19 sono stati approvati dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA) nell’Unione europea con la cosiddetta “autorizzazione condizionata all'immissione in commercio”, una procedura di autorizzazione usata in casi particolari come nelle situazioni di emergenza quali la pandemia di Covid-19.
Si tratta del vaccino prodotto da Pfizer/BioNTech (Comirnaty; anche chiamato tozinameran o BNT162b2); del vaccino prodotto da Moderna (noto anche come Spikevax o mRNA-1273); del vaccino prodotto in collaborazione dalla casa farmaceutica AstraZeneca e dall’Università di Oxford (Vaxzevria; anche chiamato AZD1222, o Covishield in India); del vaccino prodotto da Johnson & Johnson/Janssen (chiamato anche Jcovden o Ad26.COV2.S); e del vaccino prodotto da Novavax (Nuvaxovid). La Gran Bretagna ha approvato il vaccino Oxford-AstraZeneca con circa un mese di anticipo rispetto all’EMA all’inizio del 2021 e proprio da quel Paese sono arrivati i primi dati sulla sua efficacia nella vaccinazione di massa nelle varie categorie di persone. Il vaccino Pfizer/BioNTech, tra i più utilizzati per la campagna vaccinale italiana, è stato somministrato su vasta scala inizialmente in Israele, un Paese che ha anche contribuito alla raccolta dei dati di efficacia.
Di recente due aziende farmaceutiche hanno presentato all’EMA la domanda per l’autorizzazione al commercio nell’Unione europea dei loro vaccini: si tratta di Valneva, con il vaccino VLA2001, e di Sanofi-Pasteur, con il vaccino Vidprevtyn.
In Paesi al di fuori dell’Unione europea sono stati approvati anche altri vaccini e per alcuni di essi è in corso una revisione da parte di EMA ai fini di valutarne il possibile utilizzo. SI tratta in particolare dei vaccini prodotti da Sinovac Life Sciences e da HIPRA Human Health S.L.U. e il Centro nazionale di ricerca in epidemiologia e microbiologia Gamaleya di Mosca (quest’ultimo produttore del più noto vaccino Sputnik).
Come descritto sul sito EMA, si tratta dell’approvazione di un prodotto che risponde a un bisogno non ancora soddisfatto dei pazienti sulla base di dati meno completi di quanto richiesto normalmente. I dati disponibili devono comunque indicare che i benefici del prodotto superano i rischi legati al fatto che non sono disponibili i dati completi. Inoltre l’azienda farmaceutica deve essere in grado di fornire tutti i dati necessari in seguito all’approvazione condizionata, per poter ottenere l’approvazione completa. L’autorizzazione condizionata è infatti inizialmente valida per un anno e può poi essere rinnovata annualmente.
È importante ricordare che un’autorizzazione condizionata all'immissione in commercio garantisce che il vaccino approvato soddisfi tutti gli standard dell’Unione europea in termini di sicurezza, efficacia e qualità e sia inoltre prodotto e controllato in impianti certificati.
A differenza dell'uso d'emergenza, che consente, appunto in occasioni di estrema necessità e in casi specifici, in alcuni Paesi l’utilizzo di un medicinale non autorizzato, l'autorizzazione condizionata rappresenta a tutti gli effetti un'autorizzazione formale che deve però essere “perfezionata” con l’aggiunta dei dati mancanti da parte dell’azienda produttrice.
In genere, e per legge, per sviluppare un vaccino sono necessari molti anni di studi in laboratorio e di sperimentazioni prima negli animali e poi negli esseri umani. Nel caso del virus SARS-CoV-2, la ricerca di base è stata avvantaggiata da numerosi studi condotti in precedenza per vaccini contro altri virus. Tra questi, le prove di principio per vaccini anti-influenzali, per le tecniche di biologia sintetica ad acidi nucleici modificati, e le prove sui vettori adenovirali per ottenere un vaccino contro la SARS, la malattia da coronavirus all’origine di un’epidemia in Asia tra il 2002 e il 2004.
Inoltre è stato fatto un enorme sforzo finanziario internazionale, con ingenti investimenti soprattutto pubblici, che hanno portato a sviluppare con estrema rapidità oltre 190 tipi di vaccini.
Le risorse finanziarie hanno permesso di effettuare in parallelo fasi della ricerca che risorse più limitate avrebbero imposto di percorrere una dopo l’altra. Non si è però presa alcuna scorciatoia sulla valutazione di sicurezza e di efficacia: tutti i vaccini approvati finora sono stati testati su decine di migliaia di volontari, da 10 a 30 volte il numero di persone coinvolte nelle sperimentazioni sui vaccini in condizioni normali. Questi grandi numeri sono stati possibili grazie alle immense risorse messe a disposizione soprattutto dai governi di tutto il mondo. Inoltre, sempre a causa della pandemia in corso e del virus che circola ancora vigorosamente, le sperimentazioni hanno raggiunto prima del previsto il numero di casi prefissati di infezione, fra i volontari vaccinati e quelli che hanno ricevuto un placebo, nel “braccio” di controllo.
Grazie agli investimenti soprattutto pubblici, le aziende farmaceutiche hanno potuto assumere il rischio imprenditoriale di iniziare a produrre i vaccini prima ancora che arrivasse l’autorizzazione definitiva da parte delle agenzie regolatorie. Questo ha permesso di giocare d’anticipo e di poter immettere sul mercato i vaccini immediatamente dopo l’arrivo dell’approvazione, senza attendere i lunghi tempi di produzione, come succede in genere per i vaccini approvati non in emergenza.
I dati ottenuti nelle sperimentazioni dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e da Moderna – tra i primi a essere approvati da EMA – sono stati considerati sufficienti a dimostrarne la sicurezza e l’efficacia, tanto da far sì che le autorità regolatorie che valutano i nuovi farmaci decidessero di approvarne la messa in commercio più rapidamente del normale, proprio per via dell’emergenza. Per quel che riguarda il vaccino Oxford-AstraZeneca, dopo una prima richiesta di approvazione respinta da EMA per la mancanza di alcuni dati, l’azienda produttrice ha fornito ulteriori informazioni sufficienti a ottenere un parere positivo. Il vaccino Johnson & Johnson è stato infine approvato negli Stati Uniti il 27 febbraio 2021 e l’11 marzo 2021 dall’EMA.
Possiamo quindi dire che i vaccini approvati con questo sistema sono sufficientemente sicuri ed efficaci, e a mano a mano che aumenta il numero dei vaccinati siamo sempre più certi del fatto che i casi che presentano effetti collaterali gravi in seguito alla vaccinazione sono rari e sostanzialmente paragonabili a quelli riscontrati somministrando vaccini contro altre malattie. Per questo è attiva la farmacovigilanza ossia il monitoraggio delle segnalazioni degli effetti collaterali e la valutazione se siano o meno imputabili ai vaccini.
Per sviluppare vaccini contro SARS-CoV-2, il virus che provoca Covid-19, sono state utilizzate diverse tecnologie.
I vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e da Moderna sono i più innovativi e utilizzano un filamento sintetico di RNA messaggero (mRNA), la molecola che nelle cellule trasporta le informazioni per la costruzione delle proteine. Nello specifico, l’mRNA contenuto nel vaccino permette alle nostre cellule di costruire da sole l’antigene, ossia una parte della proteina Spike (S) del virus, in grado di stimolare il sistema immunitario dell’ospite. Una volta incontrato l’antigene, il sistema immunitario della persona vaccinata impara a produrre anticorpi contro di esso, mentre il filamento di mRNA sintetico si degrada dopo qualche tempo e viene eliminato. Con questa tecnica si evitano i rischi che si corrono usando, per esempio, vaccini che contengono tutto il virus attenuato, non approvati in Europa, ed è inoltre possibile produrre abbastanza rapidamente nuovi vaccini con mRNA differenti, nel caso di varianti del virus in grado di rendere inefficaci i vaccini già disponibili.
In fase sperimentale questi vaccini hanno dimostrato un’efficacia superiore al 90 per cento contro malattia grave e morte in seguito all’infezione con i virus SARS-CoV-2 in circolazione al momento delle sperimentazioni stesse, nei luoghi dove sono state svolte. Il tasso di efficacia è stato considerato molto elevato, anche alla luce del fatto che l’Organizzazione mondiale della sanità, all’inizio della pandemia, aveva dichiarato che qualsiasi vaccino con un’efficacia superiore al 50 per cento sarebbe stato utile a contrastarla. Attenzione! Dire che un vaccino è efficace al 90 per cento non vuol dire che tutti coloro cui viene somministrato sono protetti fino al 90 per cento dagli effetti di un’infezione di SARS-CoV-2. Significa piuttosto che, su circa 100 persone, 90 saranno protette dal virus e 10 no, per cui è necessario continuare a utilizzare i dispositivi di protezione personale.
Il vaccino Oxford-AstraZeneca, così come il vaccino Jcovden, contiene vettori virali modificati che trasportano alcuni geni modificati del coronavirus utili a produrre l’antigene necessario ad addestrare il sistema immunitario. Il vettore virale più comunemente utilizzato è un adenovirus modificato da uno che in natura infetta gli scimpanzé. Tali adenovirus, innocui per gli esseri umani, sono stati geneticamente modificati per introdurre il gene che permette alle nostre cellule di produrre una parte della proteina S. Si tratta di una tecnologia già sperimentata in altri tipi di vaccini.
Il vaccino di produzione russa, lo Sputnik, messo a punto dal Centro nazionale di ricerca in epidemiologia e microbiologia Gamaleya di Mosca e non ancora approvato da EMA, utilizza anch’esso vettori adenovirali che trasportano, in un frammento di DNA, le informazioni per la produzione di proteine virali. La caratteristica di questo vaccino è di utilizzare due adenovirus diversi per la prima e la seconda dose: nella prima dose impiega l’adenovirus 26 (lo stesso del vaccino Jcovden) e nella seconda l’adenovirus 5. In questo modo i ricercatori che hanno ideato il vaccino hanno inteso impedire al sistema immunitario di eliminare il virus vettore nel momento del richiamo con la seconda dose.
Esistono poi vaccini che non contengono materiale genetico ma solo le proteine virali, trasportate nell’organismo avvolte in nanoparticelle. A questa categoria appartengono i vaccini Novavax, prodotto negli USA, e Vector, somministrato in Russia, e inoltre il vaccino in preparazione da parte delle aziende farmaceutiche Sanofi e GlaxoSmithKline.
Infine alcuni Paesi, in particolare la Cina, hanno scelto di sviluppare vaccini con la tecnologia più “antica”, utilizzando virus inattivati o attenuati (cioè resi incapaci di replicarsi tramite diversi passaggi in coltura e l’uso di sostanze chimiche). Per uno di questi vaccini a virus inattivato (Sinovac-CoronaVac) è stata riportata un’efficacia a 14 giorni dalla seconda dose del 51 per cento circa contro l’infezione sintomatica da SARS-CoV-2, ma del 100 per cento contro le forme più gravi di Covid-19 che determinano la necessità di un ricovero in ospedale. Tra i vantaggi di questa tecnologia vi è però il basso costo del vaccino e la facilità di distribuzione e somministrazione.
Nel caso dei vaccini che utilizzano virus solo attenuati, è possibile, in rari casi, che in seguito alla somministrazione si sviluppi la malattia che si vorrebbe prevenire, un’evenienza impossibile con le altre tecnologie vaccinali. Per questa ragione sono sconsigliati nei pazienti con un sistema immunitario inefficiente.
I vaccini Pfizer e Moderna (vaccini a mRNA), quando sono stati sperimentati, hanno dimostrato di avere un’efficacia sovrapponibile, pari al 95 per cento circa a due settimane dalla seconda dose, ma già dopo la prima dose riducono in modo importante il rischio di ammalarsi. Entrambi questi vaccini hanno ridotto fortemente il rischio di incorrere in forme gravi della malattia e il rischio di morte. Non ci sono dati sufficienti sulla capacità del vaccino Pfizer/BioNTech di ridurre la trasmissibilità del virus, mentre per il vaccino Moderna i dati suggeriscono una scarsa capacità di limitare la capacità di infezione, in particolare della variante Omicron.
Il vaccino Oxford-AstraZeneca, quando è stato sperimentato, ha dimostrato un’efficacia contro malattia grave e morte pari al 72 per cento circa, che tende ad aumentare se l’intervallo tra le due dosi (tra 4 e 12 settimane negli studi iniziali) viene prolungata.
Il vaccino Jcovden ha mostrato di avere un’efficacia analoga a quella di AstraZeneca dopo una sola dose, e un’efficacia del 94 per cento dopo due dosi (la seconda a due mesi di distanza dalla prima).
Il vaccino Sputnik è stato ampiamente usato in Russia e in Argentina ed è in corso di valutazione da parte dell'EMA. Ai primi di febbraio 2021, i ricercatori che hanno sviluppato questo vaccino hanno pubblicato sulla rivista medica Lancet i dati di efficacia, secondo cui Sputnik garantirebbe una protezione fino al 91,6 per cento dall’infezione dopo una singola somministrazione e al 100 per cento dalle forme gravi della malattia.
Subito dopo tale pubblicazione, numerosi esperti hanno sollevato dubbi sulla qualità degli studi: la rivista scientifica ha pubblicato tre note di correzione, ma i ricercatori russi non hanno, al momento in cui scriviamo, rilasciato i dati completi necessari per ulteriori verifiche. La valutazione in corso da parte dell’EMA potrebbe aiutare a chiarire le perplessità, qualora i dati mancanti fossero forniti. Lo stesso gruppo di ricerca ha prodotto anche il vaccino cosiddetto “Sputnik Light”, che prevede la somministrazione in una sola dose e sarebbe quindi più simile al vaccino Jcovden.
Ogni tipo di vaccino ha una modalità e uno schema di somministrazione diversi. Nel caso dei vaccini a mRNA attualmente disponibili, sono necessarie due somministrazioni intramuscolo nel braccio a distanza di almeno tre (Pfizer) o quattro (Moderna) settimane l’una dall’altra. Il vaccino Oxford-AstraZeneca, riservato in Italia alle persone con oltre 60 anni, segue la stessa modalità di somministrazione, ma la seconda dose deve essere somministrata dopo almeno quattro settimane dalla prima. Il vaccino Jcovden, invece, prevede la somministrazione di una sola dose. Infine, per il vaccino Novavax, in commercio in Italia da fine dicembre 2021, sono previste due iniezioni intramuscolo a distanza di almeno 3 settimane l’una dall’altra.
I laboratori di ricerca sono alla continua ricerca di modalità più semplici di somministrazione. Trovare modalità di somministrazione più agevoli potrebbe velocizzare le campagne di vaccinazione, soprattutto in considerazione del fatto che la protezione indotta dai vaccini si riduce nel tempo, anche in seguito alla comparsa di nuove varianti. Per questo i vaccini anti-Covid dovranno essere ripetuti, verosimilmente ogni anno, nelle versioni aggiornate contro i ceppi emergenti, come già si fa con il vaccino antinfluenzale.
Gli studi oggi disponibili non sono ancora riusciti a determinare con certezza la durata della copertura vaccinale (che dipende da molteplici fattori), ma è certo che la protezione conferita dal vaccino tende a ridursi nel corso del tempo, in genere a partire da 4-5 mesi dopo il completamento del ciclo vaccinale.
Per questa ragione sono state introdotte le cosiddette dosi di richiamo (booster), che si sono dimostrate efficaci nel ripristinare le difese contro il virus.
In Italia, a fine settembre 2021, le autorità sanitarie hanno raccomandato la terza dose (il primo richiamo) per le persone fragili (per esempio, ultraottantenni, ospiti RSA, personale sanitario, persone con malattie preesistenti). La raccomandazione è stata poi estesa al resto della popolazione.
Da aprile 2022 il Ministero della salute raccomanda anche la quarta dose (secondo richiamo) dopo almeno quattro mesi dalla terza dose per alcune categorie di persone: per esempio ultraottantenni, ospiti delle RSA e “persone di 60 anni e più con elevata fragilità motivata da patologie concomitanti/preesistenti”.
I dati disponibili riguardano i vaccini a mRNA e il vaccino Oxford-AstraZeneca. Nel caso dei vaccini a mRNA gli effetti collaterali più comuni sono dolore, arrossamento e gonfiore nel punto di somministrazione. Possono inoltre comparire nausea, febbre, affaticamento, mal di testa, dolori muscolari e articolari. La maggior parte di questi effetti si verifica durante le 24-48 ore successive alla vaccinazione e si risolve in qualche giorno.
Il vaccino Oxford-AstraZeneca può generare effetti collaterali simili a quelli citati sopra, talvolta più intensi che col vaccino a mRNA. Nel mese di marzo 2021, la somministrazione del vaccino AstraZeneca è stata temporaneamente sospesa in diversi Paesi europei per consentire a EMA di valutare i dati su una possibile relazione tra alcuni casi di una rara forma di trombosi cerebrale e la somministrazione del vaccino, in particolare in donne giovani. La relazione è stata ritenuta plausibile, sebbene molto rara, e ha portato all’inserimento di questo effetto collaterale grave nell’elenco dei possibili, ma appunto estremamente rari, effetti collaterali. Nonostante ciò, alcuni Paesi, come la Francia, hanno limitato l’utilizzo di questo vaccino alla popolazione più anziana, in cui questo effetto collaterale non sembra verificarsi. L’Italia ha scelto di continuare a vaccinare con AstraZeneca tutte le fasce di età, data l’estrema rarità dell’evento, con un’indicazione preferenziale per l’uso in persone sopra i 60 anni. È bene tuttavia ricordare che la malattia Covid-19 aumenta essa stessa il rischio di andare incontro a trombosi molto più di quanto fa la vaccinazione, che resta quindi una scelta protettiva per tutte le età.
Si sono verificati, in tutto il mondo, alcuni casi di grave reazione allergica con tutti i vaccini. La frequenza di questi eventi è però analoga a quella relativa agli altri vaccini già in uso. Nella maggior parte dei casi le reazioni allergiche sono trattabili se il vaccino viene somministrato in un ambiente attrezzato e da personale formato a reagire, come accade in Italia.
Le “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19” emesse dal Ministero della salute hanno individuato come categorie prioritarie gli operatori sanitari e sociosanitari, il personale e gli ospiti dei presidi residenziali per anziani, gli anziani con più di 80 anni, le persone dai 60 ai 79 anni, la popolazione con almeno una comorbidità cronica (tra i quali i pazienti oncologici) oltre ad altre categorie di popolazioni, tra le quali quelle appartenenti ai servizi essenziali, quali anzitutto gli insegnanti e il personale scolastico, le forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità eccetera.
I pazienti oncologici vengono vaccinati con priorità in quanto possono avere un sistema immunitario compromesso dalla malattia (nel caso delle forme ematologiche) o dalle cure (in caso di pazienti in chemioterapia). In questo caso, oltre ai pazienti, la normativa prevede che vengano vaccinati anche i conviventi, per ridurre ulteriormente il rischio di contagio, poiché i vaccini possono essere meno efficaci della media in persone che hanno difese immunitarie ridotte. Questa definizione esclude dalle categorie dei fragili i “survivor”, ovvero coloro che non sono più in terapia da diversi mesi e il cui sistema immunitario ha ripreso a funzionare, anche se non sono trascorsi cinque anni dalla fine delle cure (termine che generalmente viene considerato necessario per dichiarare un paziente oncologico completamente guarito). Questa scelta deriva da studi che dimostrano come il rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19 è, nella maggior parte delle persone che hanno ricevuto una diagnosi di cancro, assimilabile a quello dei coetanei sani.
Nel Piano ministeriale si afferma inoltre che le raccomandazioni su gruppi target a cui offrire la vaccinazione saranno soggette a modifiche e verranno aggiornate in base all’evoluzione delle conoscenze e alle informazioni disponibili, in particolare relativamente sia all’efficacia vaccinale e/o all’immunogenicità e sicurezza dei vaccini approvati per l’uso in diversi gruppi di età e fattori di rischio, sia all’effetto del vaccino sull’acquisizione dell’infezione, sulla trasmissione e sulla protezione da forme gravi da malattia.
Molti virus mutano e SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di Covid-19, non fa eccezione. Non è quindi strano che siano comparse e continuino a emergere nuove varianti del virus originale ed è importante sottolineare che non tutte le varianti sono importanti dal punto di vista clinico ed epidemiologico. In particolare, l’Organizzazione mondiale della sanità definisce varianti di interesse (in inglese, variant of concern) quelle che aumentano la trasmissibilità del virus, ne aumentano la virulenza o diminuiscono l’efficacia delle misure adottate per la prevenzione e delle terapie. A oggi sono state identificate almeno 5 varianti con queste caratteristiche (Alfa, Beta, Gamma, Delta e Omicron) e diverse sottovarianti. Contro di esse i vaccini disponibili mantengono una certa efficacia anche se ridotta rispetto a quanto misurato contro il ceppo originale del virus. La buona notizia è che, nella maggior parte dei casi, le dosi di richiamo (terza e quarta dose) riescono a far aumentare nuovamente la protezione.
I malati di cancro, presi nel loro insieme, sono una delle categorie di individui a maggior rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19. Secondo gli studi disponibili, la probabilità è più alta nei pazienti con malattie oncologiche ematologiche, cancro del polmone o forme già metastatizzate, mentre gli altri malati con tumori solidi sono a rischio aumentato di sviluppare forme gravi in particolare nell’anno successivo alla diagnosi di cancro. La probabilità diminuisce di anno in anno e a 5 anni dalla diagnosi è pari a quella di una persona della stessa età e condizione che non si è ammalata di cancro.
In tutti i casi, il maggior rischio si corre se la malattia è attiva e sembra che nelle persone più giovani (con meno di 65 anni) gli effetti del tumore sul rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19 sia particolarmente elevato. Come ribadito dalle linee guida emesse dalla European Society of Medical Oncology (ESMO) e da altre analisi presenti in letteratura, molte delle valutazioni relative ai malati di cancro colpiti da Covid-19 sono spesso frutto di studi osservazionali, cioè di calcoli fatti a posteriori osservando ciò che è accaduto nel primo anno di pandemia e cambiano costantemente con il passare del tempo e l’aggiunta di nuovi dati.
I dati censiti nel registro “Covid-19 and Cancer Consortium” (CCC19) e ottenuti in altri studi mostrano percentuali di mortalità tra i malati oncologici colpiti dal virus che variano dal 5 al 61 per cento, molto più alta di quella che si misura nella popolazione generale. Un articolo di revisione pubblicato sulla rivista Nature Reviews nel 2022 riporta che la mortalità risultava particolarmente elevata nei pazienti oncologici con malattia attiva nel corso della prima ondata di Covid-19 (circa 40 per cento), per poi passare al 25 per cento circa nelle successive ondate nei paesi europei. Vi sono però molti fattori che potrebbero confondere la lettura e l’interpretazione dei dati, non ultimo il fatto che i pazienti oncologici sono generalmente più anziani della media della popolazione, ed è noto che l’età rimane il fattore di rischio più importante per la mortalità da Covid-19, insieme alla compresenza di altre malattie.
La pandemia ha inoltre influito sulla frequenza e accuratezza dei programmi di screening e di diagnosi, talvolta con ritardi nell’identificazione dei tumori che sono di per sé causa di aumentata mortalità. Da non dimenticare infine i cambiamenti nei programmi terapeutici provocati dalla pandemia, con modifiche nei tempi di somministrazione di alcuni farmaci, ritardi nell’inizio delle terapie o nell’esecuzione di interventi chirurgici. Tutti fattori che possono contribuire a definire i tassi di mortalità.
Le linee guida internazionali prodotte dalle società scientifiche di oncologia medica (ESMO, ASCO) e le raccomandazioni italiane (AIOM) sono tutte concordi: i malati di cancro devono vaccinarsi appena possibile perché i rischi che corrono in caso di infezione sono molto elevati. Questo consiglio è ritenuto valido anche se i vaccini non sono stati testati, durante la fase sperimentale, in persone affette da cancro (ma neanche in pazienti con altre malattie, come quelle autoimmuni, alle quali allo stesso modo è consigliato vaccinarsi).
In particolare, secondo le linee guida ESMO vi sono sufficienti prove a sostegno dell’efficacia dei vaccini (con l’esclusione dei vaccini a base di virus attenuato, non approvati in Europa) anche in pazienti oncologici sottoposti a terapie immunosoppressive, un tipo di cure che potrebbe limitare la risposta dell’organismo alla vaccinazione. In caso di trapianto di midollo, il tempo di attesa consigliato prima della vaccinazione è simile a quello già suggerito per tutte le altre vaccinazioni (circa sei mesi dal trapianto stesso).
Secondo gli esperti è meglio vaccinarsi prima di iniziare le cure antitumorali, ma se queste sono già cominciate non sono una controindicazione alla vaccinazione. Allo stesso modo non ha senso aspettare di essere vaccinati prima di cominciare a sottoporsi a chemioterapia, perché si rischierebbe di perdere tempo prezioso per la cura del tumore.
Anche i pazienti vaccinati devono però continuare ad assumere tutte le precauzioni possibili per evitare di ammalarsi di Covid-19, proprio perché potrebbero rispondere meno bene delle altre persone alla vaccinazione e quindi non essere altrettanto protetti. L’uso di mascherine ffp2, di gel disinfettante e il distanziamento sociale devono rimanere le prime e indispensabili misure di prevenzione per i malati di cancro. Con la vaccinazione di massa del personale sanitario, che ha contribuito a ridurre la circolazione del virus in ambiente ospedaliero, i malati di cancro hanno potuto inoltre contare su un ulteriore scudo protettivo.
I dati più aggiornati mostrano che la sicurezza dei vaccini contro Covid-19 nei pazienti con cancro è del tutto simile a quella che si osserva nella popolazione generale. E come per la popolazione generale, anche per i malati oncologici i benefici della vaccinazione superano di gran lunga i rischi.
Inizialmente si pensava che l’uso dell’immunoterapia potesse essere associato a un aumento degli effetti avversi gravi di tipo immunitario, ma i risultati di diversi studi hanno smentito questa ipotesi.
Un noto effetto dei vaccini Moderna e Pfizer-BioNTech è il rigonfiamento dei linfonodi. Chi soffre di linfedema al braccio o alla gamba a causa di una terapia oncologica è invitato quindi a fare il vaccino nel braccio o nella coscia opposte a quelle colpite.
La British Lymphology Society ha anche consigliato per coloro che stanno ricevendo trattamenti che coinvolgono i linfonodi, per esempio radioterapia o chirurgia dei linfonodi per il cancro del seno o della pelle, di farsi iniettare il vaccino nel braccio o nella gamba opposte. Se sono stati trattati da entrambi i lati, dovrebbero ricevere il vaccino nella coscia.
L’ingrossamento dei linfonodi in seguito alle vaccinazioni potrebbe portare a un’interpretazione errata del risultato di alcuni esami diagnostici per immagini, come per esempio la mammografia. Per questa ragione si raccomanda di aspettare almeno un mese dalla vaccinazione prima di sottoporsi a questo tipo di esame o di segnalare al medico la data recente in cui è avvenuta la vaccinazione.
Prima della pandemia, la maggior parte delle informazioni disponibili sulla risposta ai vaccini nei pazienti oncologici proveniva da studi sulla vaccinazione antinfluenzale. Sappiamo che i pazienti oncologici sviluppano anticorpi contro l’influenza quando vengono vaccinati, anche se il livello della risposta immunitaria può variare in base al tipo di terapia a cui sono stati sottoposti o, ancora di più, al tipo di terapia che stanno assumendo se sono ancora in cura.
Per quanto riguarda la vaccinazione contro Covid-19, i dati oggi disponibili mostrano che, in genere, la risposta immunitaria dopo la vaccinazione è inferiore nelle persone con tumore rispetto alla popolazione generale. In particolare, un ampio studio, condotto prima che la variante Omicron fosse dominante, ha mostrato per i vaccini a mRNA un’efficacia del 75 per cento circa nel prevenire i ricoveri da Covid nei pazienti oncologici, contro il 90 per cento registrato nella popolazione non oncologica.
La maggior parte dei pazienti con tumore solido (90-100 per cento) mostra una risposta dopo la seconda dose di vaccino, anche se, in caso di presenza di malattia metastatica, età avanzata o pazienti di sesso maschile, la risposta immunitaria alla vaccinazione si riduce. Anche in caso di tumori del sangue la risposta alla vaccinazione è ridotta soprattutto in caso di malattia in fase attiva, età avanzata e sesso maschile, mentre nel caso di trapianto allogenico di cellule staminali i fattori che riducono la risposta alla vaccinazione sono, oltre all’età avanzata, anche la presenza di malattia trapianto-versus-ospite e la linfopenia (riduzione dei globuli bianchi nel sangue).
Infine, alcuni trattamenti oncologici possono influenzare la risposta alla vaccinazione. Con la chemioterapia la risposta immunitaria legata al vaccino si può ridurre. Molti centri hanno preferito non somministrare contemporaneamente chemioterapia e vaccino soprattutto per evitare la sovrapposizione degli effetti collaterali, ma dal punto di vista dell’efficacia vaccinale il momento della somministrazione è indifferente.
Possibili riduzioni della risposta immunitaria sono state osservate anche in pazienti con tumore ovarico che assumono inibitori di PARP e in individui che assumono inibitori CDK4/6 o fanno uso cronico di steroidi, come spesso succede per i pazienti oncologici.
L’immunoterapia con inibitori dei checkpoint immunitari non sembra avere grande impatto sulla risposta alla vaccinazione a differenza della terapia con CAR-T, che invece ha un effetto negativo sulla risposta immunitaria, la cui durata però non è nota.
La buona notizia è che le dosi booster sono efficaci nel migliorare la risposta e sono in genere ben tollerate dai pazienti oncologici. Sembra inoltre che il beneficio delle dosi di richiamo sia maggiore se per i booster si utilizza un vaccino diverso da quello utilizzato per il ciclo iniziale di vaccinazione.
Tutti i vaccini si sono dimostrati efficaci, ma i vaccini a mRNA sono più indicati per i pazienti con un sistema immunitario compromesso o in chemioterapia e sono considerati particolarmente efficaci e sicuri.
Chi ha ricevuto una diagnosi di cancro da più tempo o ha già interrotto le cure può rispondere bene anche ad altri tipi di vaccino come al vaccino Oxford-AstraZeneca. Di sicuro, per loro come per tutti coloro che hanno una malattia che compromette l’efficienza del sistema immunitario o che sono in terapia immunosoppressiva, i vaccini a virus attenuato, non approvati in Europa, sono sconsigliati.
Sono ancora in corso studi per verificare se alcuni vaccini possano offrire una protezione maggiore di altri per specifiche categorie di persone.
Quella di Covid-19 non è stata certo la prima pandemia nella storia dell’umanità, ma di certo è stata la prima al tempo dei social media. Il ruolo di Facebook, Twitter, Tik-Tok e altre piattaforme nel diffondere informazioni è risultato infatti centrale sin dall’inizio della pandemia. Tuttavia l’affidabilità di quanto pubblicato nei social è spesso difficile da verificare e molte notizie false – le cosiddette “fake news” – sul virus e i vaccini si sono diffuse a macchia d’olio. Una tra tutte, quella che sostiene che la vaccinazione aumenti il rischio di sviluppare tumori. Come spiegato da numerosi esperti di “fact checking” che lavorano proprio a smontare queste bufale, questa notizia è del tutto falsa. Partita da un tweet di un certo Afzal Niaz, la notizia di un legame tra vaccinazione e cancro è stata smentita da diversi esperti. Un aumento del rischio di sviluppare un cancro, insieme a un peggioramento delle prognosi oncologiche, sono possibili nel prossimo futuro, ma i vaccini non hanno alcun ruolo in questo incremento. Esso è infatti legato all’invecchiamento della popolazione e inoltre al blocco, nel corso della pandemia, di tanti programmi di screening o all’interruzione o ritardo nella somministrazione di alcuni trattamenti oncologici. Tutte circostanze che potenzialmente portano a più casi di tumore e a diagnosi in fase più avanzata e quindi più difficili da curare e trattare con successo.
Agenzia Zoe
Articolo pubblicato il:
2 settembre 2022