Ultimo aggiornamento: 22 giugno 2021
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Ogni giorno il sistema immunitario elimina cellule con mutazioni potenzialmente dannose, tra cui quelle cancerogene, bloccando sul nascere la formazione di nuovi tumori. Se tuttavia queste cellule riescono a superare questo primo fronte di difesa, le successive risposte dell'organismo sono meno efficaci. Quando le cellule tumorali non vengono più riconosciute dalle difese immunitarie, il cancro può avanzare e manifestarsi clinicamente.
La ricerca negli ultimi decenni, sostenuta anche da AIRC, ha studiato a fondo i meccanismi molecolari alla base di questo fenomeno, scoprendo come il tumore riesca non solo a sfuggire agli attacchi del sistema immunitario, ma addirittura a reclutarne alcune componenti perché lo difendano e ne favoriscano lo sviluppo.
Grazie a queste conoscenze sempre più approfondite, i ricercatori hanno messo a punto diverse strategie, che rientrano nelle cosiddette immunoterapie. Si tratta di trattamenti, alcuni sperimentali, altri approvati, che mirano a risvegliare la capacità dell'organismo di difendersi dal tumore, "rieducando" il sistema immunitario a tenere sotto controllo ed eliminare efficacemente le cellule trasformate.
Inizialmente sono state utilizzate sostanze prodotte in laboratorio, ma che riproducono fedelmente quelle naturali coinvolte nella reazione infiammatoria alla base della risposta immune. Sono anche dette terapie immunologiche non specifiche, perché non sono utilizzate esclusivamente per la cura del cancro né per un determinato paziente.
In seguito si è provato ad applicare all'immunoterapia del cancro gli stessi principi dei vaccini utilizzati per prevenire le malattie infettive, seppure con alcune importanti distinzioni.
Le prospettive oggi più innovative e promettenti dell'immunoterapia per il cancro sono, infine, frutto di ricerche che negli ultimi anni hanno approfondito i meccanismi molecolari alla base dell'interazione tra cellule tumorali e cellule immunitarie. Alcuni trattamenti derivati da questi studi sono già disponibili e sono gli inibitori dei checkpoint immunitari e le CAR-T (linfociti T chimerici).
In particolare negli ultimi anni l’utilizzo degli inibitori dei checkpoint immunitari ha raddoppiato o triplicato la sopravvivenza a lungo termine in pazienti con alcuni tipi di neoplasie in fase avanzata, come il melanoma, il tumore del polmone e quello del rene.
Il sistema immunitario elimina rapidamente gli agenti patogeni se le cellule da cui è costituito dialogano efficacemente tra loro. Tale dialogo avviene in natura anche attraverso molecole di membrana che fanno parte dei cosiddetti "check-point immunitari". Si tratta di molecole che, fra le altre cose, inviano segnali intracellulari inibitori in grado di frenare l'attività del sistema immunitario quando, per esempio, i patogeni sono stati eliminati. A questo punto l'azione distruttiva non è più necessaria e potrebbe anzi provocare infiammazione e danni interni.
Utilizzando queste conoscenze, alla base del funzionamento del sistema immunitario, si è quindi ipotizzato che si potesse, viceversa, togliere il freno alla risposta immunitaria, orientando contro il cancro il suo potenziale di controllo e di distruzione. Fra gli strumenti usati per raggiungere questo obiettivo ci sono anticorpi monoclonali diretti contro bersagli che fanno parte dei check-point immunitari inibitori. I principali bersagli su cui finora ci si è concentrati in clinica sono CTLA-4, PD-1 e PDL-1.
Gli anticorpi diretti ai checkpoint approvati in Italia (a maggio 2021) sono: ipilimumab, che inibisce il recettore CTLA-4; nivolumab e pembrolizumab, che agiscono contro PD-1; atezolizumab, durvalumab e avelumab, in grado di controllare PD-L1.
Il melanoma avanzato è stata la malattia contro la quale è stata inizialmente sviluppata l’immunoterapia. Con ricerche successive è stata dimostrata la possibile efficacia di questo approccio anche per altre neoplasie in stadio avanzato, quali per esempio il tumore del polmone, quello del rene, il mesotelioma pleurico e il carcinoma mammario triplo negativo. I successi ottenuti riguardano tuttavia meno della metà dei pazienti, mentre gli altri ancora non rispondono a questi trattamenti. Molti studi si stanno quindi concentrando sull’identificazione di fattori in grado di predire la risposta dei pazienti all’immunoterapia e sull’aumentare il numero di soggetti per cui i trattamenti possono dimostrarsi efficaci, anche attraverso terapie di combinazione.
I successi ottenuti in clinica con gli anticorpi diretti contro i checkpoint immunitari stanno favorendo lo sviluppo di strategie terapeutiche di combinazione. Per esempio, nivolumab somministrato insieme a ipilimumab ha mostrato una maggiore efficacia rispetto alla monoterapia, con un miglioramento significativo della sopravvivenza globale e la riduzione del rischio di morte in neoplasie in fase avanzata difficili da trattare, come il tumore del polmone e il mesotelioma pleurico, così come già dimostrato nel melanoma. Altre strategie prevedono la combinazione di inibitori dei checkpoint con chemioterapia o con differenti farmaci antitumorali.
Alcune terapie di combinazione sono già rimborsate in Italia; altre, come pure nuovi inibitori di checkpoint, sono in fase di studio e di sviluppo, anche con il sostegno di AIRC, e potrebbero essere approvate nei prossimi anni anche per diversi tipi di tumore.
Tra queste, una sperimentazione clinica portata avanti con il sostegno di AIRC dal gruppo di Michele Maio del Policlinico Le Scotte e Università di Siena, coordinata da Anna Maria Di Giacomo per il melanoma e da Luana Calabrò per il cancro del polmone, prevede l'impiego dell’immunoterapia in associazione a farmaci epigenetici. Questi ultimi, tramite la regolazione dell'espressione dei geni, dovrebbero potenziare il riconoscimento delle cellule tumorali da parte del sistema immunitario, in pazienti resistenti a precedenti trattamenti con inibitori dei check-point. In pratica, combinando le due classi di farmaci si punta a fare “abbassare la guardia” al tumore per poi colpirlo. I farmaci epigenetici dovrebbero rendere il tumore più visibile alle difese immunitarie. Queste ultime, a loro volta, dovrebbero diventare più reattive e riconoscere e attaccare il tumore grazie allo stimolo ricevuto dai farmaci immunoterapici.
Una delle strade più promettenti per il futuro dell'immunoterapia prevede l'uso di linfociti o cellule CAR-T. Si tratta di linfociti T prelevati dal sistema immunitario del paziente e ingegnerizzati in laboratorio in modo da contrastare in maniera più efficace il tumore, una volta reinfusi nell'organismo.
Il metodo prevede in primo luogo di prelevare i linfociti T dal sangue del paziente e di crescerli in coltura in laboratorio. Quindi un virus svuotato delle sue parti pericolose viene utilizzato, sempre in laboratorio, come veicolo per inserire nel DNA delle cellule da ingegnerizzare un gene che codifica per un recettore detto Chimeric Antigen Receptor (CAR). Si tratta di un recettore trans-membrana, che cioè attraversa per tutto il suo spessore la membrana cellulare: all'esterno la molecola ha la struttura di un anticorpo che permette di prendere di mira in maniera specifica molecole esposte sulle cellule tumorali; all'interno invece agisce come un segnale che spinge la cellula ingegnerizzata ad attivarsi con particolare aggressività contro le cellule tumorali stesse. In questo modo, i linfociti reinfusi nel paziente diventano dei veri e propri killer antitumorali.
Le CAR-T contro linfomi e leucemie linfoblastiche a cellule B hanno ottenuto risultati importanti, con oltre il 90 per cento di successo nelle leucemie linfoblastiche acute dei bambini resistenti alle terapie tradizionali o recidivanti dopo le cure. Risultati positivi si sono riscontrati anche negli adulti.
Nel 2019 l’AIFA ha approvato la rimborsabilità per due terapie CAR-T, tisagenlecleucel (indicata per pazienti fino a 25 anni di età con leucemia linfoblastica acuta a cellule B e per pazienti adulti con linfoma diffuso a grandi cellule B) e axicabtagene ciloleucel (indicata negli adulti per il linfoma diffuso a grandi cellule B e il linfoma primitivo del mediastino). I pazienti che hanno i requisiti per questi trattamenti sono quelli refrattari ad altre terapie. I dati finora disponibili mostrano che le CAR-T non solo sono in grado di curarli, ma in diversi casi anche di guarirli.
Nel dicembre 2020 la Commissione europea ha autorizzato l’immissione in commercio condizionata della terapia CAR-T denominata KTE-X19 (brexucabtagene autoleucel) per i pazienti con linfoma mantellare che non rispondono ad altre terapie. L’autorizzazione condizionata da parte degli enti regolatori è una procedura che permette di mettere un farmaco a disposizione dei pazienti più rapidamente del consueto, ed è concessa in casi specifici in cui i malati non possono contare su opzioni terapeutiche curative.
I trattamenti con CAR-T dovrebbero diventare più accessibili ed economici, grazie allo sviluppo di metodi di produzione più economici e possibilmente applicabili anche ad altri tipi di tumori. Questo è in sintesi l’obiettivo del programma di ricerca INCAR (Innovative CAR Therapy Platform), guidato da Andrea Biondi dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e Ospedale San Gerardo di Monza. Il programma di ricerca è sostenuto da un Accelerator Award, nell’ambito della collaborazione internazionale sostenuta, dal 2018, da tre organizzazioni non profit: la britannica Cancer Research UK (CRUK), la spagnola Fundación Científica - Asociación Española Contra el Cáncer (FC AECC) e l’italiana Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro.
All’Ospedale Bambino Gesù di Roma il gruppo di Franco Locatelli ha invece messo a punto una terapia CAR-T con una caratteristica particolare: l’editing genetico prevede anche l’inserimento nei linfociti T della Caspasi 9 (in sigla iC9), una sorta di gene “suicida” in grado di bloccare i linfociti T modificati, attivabile qualora si presentassero degli effetti collaterali, possibili conseguenze di queste terapie. È uno studio tutto italiano sostenuto da AIRC, Ministero della salute e Regione Lazio. Inoltre, il team di Locatelli sta lavorando per utilizzare le CAR-T anche contro il neuroblastoma, il tumore solido più frequente in età pediatrica; altre possibili applicazioni sono contro il mieloma multiplo e il linfoma non Hodgkin a cellule B.
I risultati ottenuti con le CAR-T hanno ispirato la ricerca di nuove terapie a base di cellule con recettori chimerici. Per esempio, le cellule CAR-NK, dove NK sta per Natural Killer, sono un altro tipo di linfociti geneticamente modificati che possiedono specifiche caratteristiche antitumorali. Vi sono poi le CARCIK, particolari linfociti T che uniscono all’attività citotossica dei T anche quella antitumorale delle NK (CIK è l’acronimo di Cytochine Induced Killer). Infine, le CAR-M prevedono l’ingegnerizzazione dei macrofagi.
Che cosa sono e quando si usano le terapie immunologiche non specifiche?
Le terapie immunologiche non specifiche sono costituite da mediatori naturali dell'infiammazione e della risposta immunitaria riprodotti in laboratorio. Appartengono alla categoria dei cosiddetti farmaci biologici e se ne è parlato anche nella sezione dedicata alle terapie mirate. In particolare due molecole, interleuchina 2 e interferone, si sono dimostrate utili in passato contro alcune forme di cancro, ma oggi, grazie allo sviluppo di trattamenti più efficaci e con meno effetti indesiderati, sono riservate solo a casi particolari.
Quando si parla di "vaccini" contro il cancro occorre distinguere tra diversi preparati:
Sono preparati capaci di prevenire una malattia infettiva stimolando una risposta immunitaria. A questo gruppo appartengono il vaccino contro l'epatite B (HBV) e quello contro il papilloma virus (HPV), chiamati anche vaccini “anticancro” perché proteggono da infezioni potenzialmente cancerogene. Pur non agendo direttamente sulla comparsa o lo sviluppo del cancro, prevengono tuttavia le infezioni che lo favoriscono.
Sono trattamenti capaci di risvegliare le difese dell'organismo contro la malattia in corso, già sperimentati per la cura di diversi tipi di tumore. Il principio è fondamentalmente lo stesso alla base dei vaccini usati contro le malattie infettive: "addestrare" il sistema immunitario a riconoscere le molecole (antigeni) che si trovano prevalentemente sulla superficie delle cellule tumorali, eliminando queste ultime. Lo si può fare, tra gli altri, con:
La ricerca sul sistema immunitario, così come quella che studia le caratteristiche biologiche dei tumori e del loro rapporto con l'ambiente circostante, ottengono continuamente risultati che potrebbero essere usati per sviluppare nuove strategie per immunoterapie.
Tra le diverse cellule del sistema immunitario ci sono per esempio i macrofagi, che normalmente agiscono in prima linea, in maniera aspecifica, nella reazione infiammatoria, come protagonisti della cosiddetta immunità innata. Alberto Mantovani, direttore scientifico della Fondazione Humanitas per la ricerca di Rozzano (MI), ha scoperto che all'interno dei tumori queste cellule, spesso paragonate a poliziotti corrotti, favoriscono la crescita e la progressione della malattia invece di frenarla.
Nell'ambito del Programma di oncologia clinica molecolare 5 per mille di AIRC di cui è coordinatore, Mantovani ha dimostrato che una molecola da lui scoperta vent'anni fa, la pentraxina, in sigla PTX3, ha un ruolo fondamentale nell'impedire lo sviluppo dei tumori. La pentraxina infatti ostacola il reclutamento dei macrofagi da parte del cancro, tramite una sorta di meccanismo "anticorruzione". La scoperta ha già dato avvio al processo di sviluppo di nuovi farmaci, e altri potranno essere messi a punto a mano a mano che la ricerca dovesse mettere in luce nuovi possibili bersagli su cui agire.
Nel frattempo Paola Allavena, responsabile del laboratorio di immunologia cellulare sempre all'Istituto clinico Humanitas, ha scoperto con il suo gruppo che il farmaco trabectedina è efficace contro queste stesse cellule che agiscono come "poliziotti corrotti". La trabectedina è stata sviluppata nei laboratori dell'Istituto Mario Negri di Milano quando Maurizio D'Incalci lavorava presso l’Istituto. Il farmaco è già approvato in Europa per il trattamento dei sarcomi del tessuti molli e del tumore ovarico. La scoperta di Allavena è stata fatta in collaborazione con l'Istituto nazionale tumori di Milano e l'Università degli Studi di Milano.
Altri promettenti "vaccini anticancro" sono in fase sperimentale nei laboratori di tutto il mondo. Ci vorrà però ancora un po' di tempo perché i risultati siano validati in studi clinici e possano eventualmente essere utilizzati nei pazienti.
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Agenzia Zadig