Ultimo aggiornamento: 13 novembre 2024
La chirurgia e la radioterapia hanno un’efficacia pressoché sovrapponibile per la cura del tumore alla prostata localizzato. Sulla scelta tra queste due opzioni terapeutiche conta anche la volontà del paziente. L’aumento delle diagnosi precoci ha favorito la diffusione della sorveglianza attiva, oggi indicata in circa 1 caso su 3, perché rimandare il trattamento “attivo” non fa peggiorare la prognosi in questa categoria di pazienti.
Nell’ultimo decennio il tumore della prostata è divenuto il più frequente nella popolazione maschile dei Paesi occidentali. La sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età e, sebbene alcune diagnosi si verifichino in fase avanzata o metastatica, nella maggior parte dei casi la malattia viene rilevata quando è confinata alla ghiandola. Si tratta della fase in cui è maggiormente curabile, grazie anche a un ventaglio sempre più ricco di opzioni terapeutiche.
La scelta della terapia è effettuata in base a diversi parametri, tra cui lo stadio del tumore, la concentrazione dell’antigene prostatico specifico (PSA) nel sangue, il punteggio di Gleason e il numero di prelievi risultati positivi dopo la biopsia di conferma della diagnosi. La chirurgia rimane un punto fermo per la gestione del tumore localizzato, soprattutto nei pazienti più giovani e che di conseguenza hanno davanti una prospettiva di vita più lunga. Per pazienti più anziani sono invece da considerare i possibili effetti collaterali legati all’asportazione della prostata, che possono comprendere l’incontinenza urinaria e la disfunzione erettile.
Un contributo a limitare questi problemi è arrivato dalla chirurgia robotica, con cui è stato possibile migliorare l’accuratezza degli interventi rispetto alle tecniche tradizionali. Grazie a questa tecnica è stato infatti possibile accorciare sia la durata dell’intervento sia i tempi di recupero, nonché ridurre i sanguinamenti e il dolore, permettendo dimissioni più veloci, e diminuendo in parte le probabilità di comparsa di altri effetti collaterali. Quanto alle probabilità di guarigione, invece, gli esiti della chirurgia robotica rimangono pressoché sovrapponibili a quelli ottenuti con la più tradizionale tecnica laparoscopica, in ogni caso positivi in oltre il 90 per cento dei casi.
Se dalla letteratura scientifica i risultati della radioterapia risultano essere sovrapponibili a quelli della chirurgia, in termini di sopravvivenza, l’impatto sulla qualità di vita risulta invece inferiore rispetto a quello chirurgico. A ciò concorre verosimilmente anche l’ipofrazionamento, ovvero l’approccio di radioterapia che prevede un minor numero di sedute a fronte di un incremento della dose radiante somministrata. Tale modalità di cura è oggi validata come efficace e comunemente utilizzata anche nel trattamento del tumore della prostata, oltre che del seno e in alcune forme di cancro del polmone.
Per queste ragioni, in un rapporto pubblicato ad aprile 2024 la Commissione di esperti su questo tipo di cancro della rivista The Lancet ha puntato l’attenzione sulla necessità di rafforzare i servizi di radioterapia. Secondo gli esperti, tali servizi vanno garantiti dove ancora non ci sono e vanno rinnovate le macchine, considerando che la loro vita media è mediamente di circa 8 anni. Fondamentale anche la connessione tra i centri, in particolare per i casi che richiedono il confronto tra gruppi multidisciplinari.
Tra i possibili trattamenti è ormai inclusa anche la sorveglianza attiva, che ha come obiettivo “non la rinuncia al trattamento, ma la possibilità di effettuarlo se e quando si renda necessario”, come si legge nelle più recenti linee guida dell’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM). Si tratta di una strategia offerta soprattutto a pazienti più giovani e con tumori a basso rischio, a differenza della vigile attesa. Quest’ultima è una prassi più passiva e con minori controlli invasivi, in genere proposta a pazienti più anziani o con altri problemi di salute, con l’obiettivo primario di preservare la qualità della vita.
La sorveglianza attiva permette invece di rinunciare all’intervento in prima battuta e di ricorrervi all’occorrenza in un secondo momento, soltanto nel caso in cui la malattia evidenzi segni di progressione. A tale scopo il protocollo prevede un calendario serrato di controlli, con il dosaggio del PSA ogni 3 mesi, la visita con palpazione della ghiandola a cadenza semestrale e una nuova biopsia prostatica a 1, 4 e 7 anni dopo la diagnosi. L’indicazione riguarda potenzialmente 1 paziente su 3, anche se l’offerta sul territorio nazionale è ancora disomogenea.
Dati pubblicati nel 2023 sul New England Journal of Medicine indicano che fino a 15 anni dalla diagnosi non ci sarebbe praticamente differenza in termini di sopravvivenza tra i pazienti trattati fin da subito e quelli inseriti in un protocollo di sorveglianza attiva. Sembra esservi invece maggiore incertezza oltre questa soglia temporale, come suggeriscono i risultati, pubblicati sempre sulla stessa rivista nel 2018, di uno studio in cui i pazienti del gruppo di controllo erano stati seguiti con la vigile attesa. Per questa ragione ai pazienti più giovani, e dunque potenzialmente nelle condizioni di vivere anche diversi decenni dopo la diagnosi, si continua a suggerire più di frequente il ricorso a una terapia chirurgica o radioterapica al posto della sorveglianza attiva.
Fabio Di Todaro