Ultimo aggiornamento: 21 novembre 2024
A novembre 2024 in Lombardia, sola Regione in Italia, partirà il programma di screening per la diagnosi precoce del cancro alla prostata, basato sull’esame del PSA, un test la cui efficacia a tale scopo è però considerata assai dubbia dagli esperti.
In Italia, il cancro della prostata è uno dei tumori più diffusi: è il primo tra gli uomini, con circa 41.100 nuove diagnosi stimate per il 2023, ed è in crescita. La Lombardia è la prima regione in Italia, e tra le sole in Europa, ad avviare un programma di screening gratuito per la diagnosi precoce, basato sull’esame del PSA. Lo screening inizierà a novembre 2024 e coinvolgerà dapprima i residenti in Lombardia di 50 anni, per poi essere esteso anno dopo anno, fino a coprire tutti gli uomini dai 50 ai 69 anni. L’adesione sarà possibile tramite il Fascicolo sanitario elettronico. Come emerge da una nota di Regione Lombardia, al momento è in corso una ricognizione sul territorio regionale finalizzata a mappare e coinvolgere le strutture pubbliche e private accreditate.
Il test del PSA è un esame ben conosciuto, dato che è utilizzato, soprattutto a scopi di monitoraggio e follow-up della malattia, già dalla fine degli anni Ottanta. Il test, effettuato su un campione di sangue, permette di rilevare la presenza del cosiddetto antigene prostatico-specifico (PSA). L’antigene si trova soprattutto nel liquido seminale, prodotto dalla prostata, ma in piccole quantità è rilevabile anche nel sangue. Diffuso su tutte le cellule della ghiandola prostatica, non è specifico delle cellule tumorali. Per questo può essere molto elevato sia in presenza di un tumore della prostata, sia in caso di altri disturbi, per esempio in caso di ipertrofia, di infezione, di una prostatite e di altri tipi di infiammazione. Si è provato a lungo a utilizzare questo test come screening di popolazione per la diagnosi precoce del tumore alla prostata, ma i risultati non sempre attendibili hanno indotto la comunità medico-scientifica a sconsigliarne l’uso a questo scopo. Un eventuale esito positivo può infatti innescare una cascata di esami invasivi e di successive cure potenzialmente inutili, a fronte di una malattia o non presente o indolente che non richiede trattamenti. A oggi, un programma nazionale di screening di popolazione del cancro della prostata tramite questo tipo di esame, a cadenza annuale, esiste solo in Lituania.
“È un dato di fatto che l’esame del PSA permetta di intercettare un tumore in una fase precoce che può essere trattato più efficacemente. Quello che va però evitato è il rischio di sovradiagnosi e di sovratrattamento, cioè di considerare questo test come sufficiente a stabilire se è presente un tumore e se sia opportuno un eventuale intervento” spiega Francesco Montorsi, primario di Urologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e professore ordinario di urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. “Ogni anno molti pazienti vengono da me con un tumore alla prostata in fase avanzata. Tutti hanno in comune un PSA elevatissimo e il fatto di non essersi mai sottoposti a questo esame fino a quel momento”. Il punto, quindi, non è se usare o meno il PSA, bensì come valutare un eventuale risultato positivo. “Un PSA elevato non significa infatti che sia presente un tumore, né che esso sia più o meno aggressivo, o che sia necessario operare. Significa solo che la persona merita di essere sottoposta a ulteriori esami prima di decidere se e come intervenire.”
Della stessa opinione è Fabrizio Dal Moro, direttore del reparto di urologia dell’Azienda ospedaliera dell’Università degli studi di Padova. “Il tumore della prostata può avere un’aggressività variabile. Ci sono casi che semplicemente teniamo sotto controllo, anche per decenni, e che non creeranno mai problemi.” Come facciamo, quindi, a discriminare i casi per gravità?
A fronte di un PSA elevato, le linee guida internazionali indicano che il medico deve informare il paziente del fatto che saranno necessari ulteriori approfondimenti e che potrebbe essere opportuno effettuare una biopsia ed eventualmente un intervento. In secondo luogo, a distanza di qualche mese si ripete il test del PSA. Nel caso in cui il PSA è ancora elevato, si suggerisce una risonanza magnetica multiparametrica che permette di individuare eventuali aree sospette. Se la risonanza multiparametrica risulta negativa, non si procede e si rivede il paziente un anno dopo; se invece è positiva, allora solo a quel punto si sottopone il paziente a biopsia, un esame invasivo che aiuta a chiarire il tipo di tumore e il grado (più alto è il grado e maggiore è l’aggressività del tumore). Un altro aspetto di cui tenere conto è il fatto che il cancro della prostata è una malattia multifocale: ciò significa che nella ghiandola prostatica il cancro può essere localizzato in più punti. Proprio per essere certi di analizzarli tutti è importante che la biopsia sia guidata dalle immagini raccolte con la risonanza magnetica.
“Un secondo elemento da considerare è che la chirurgia ha fatto passi in avanti notevoli. Un intervento alla prostata non significa necessariamente essere condannati a una vita di incontinenza o impotenza, com’era un tempo” continua Da Moro. “Questo è possibile grazie alla chirurgia localizzata e a quella robotica, che permettono alla maggior parte dei pazienti operati di superare l’incontinenza poco tempo dopo la rimozione del catetere. Chiaramente la possibilità di intervenire in modo meno invasivo dipende dallo stato di avanzamento della malattia. Se la intercettiamo prima, abbiamo maggiori possibilità di una buona ripresa post-operatoria”.
È evidente che sottoporre a risonanza magnetica multiparametrica tutti i pazienti con PSA elevato sarebbe probabilmente impraticabile, non solo per i costi verosimilmente insostenibili per il sistema sanitario nazionale. Infatti, mentre il PSA è un semplice test del sangue, dal prezzo irrisorio, la risonanza magnetica è molto più costosa, dato che richiede personale altamente specializzato. Anche per questo le liste d’attesa con il servizio sanitario sono in genere lunghe. Molte persone finiscono per sottoporsi a questo esame altrove, a pagamento, ma così aumentano ulteriormente le disparità tra chi può permettersi di sostenere i costi sanitari e chi no.
La situazione è dunque complessa dal punto di vista non solo medico-scientifico, ma anche economico e sanitario. Per risolvere la questione molti esperti concordano che occorra sviluppare un esame più specifico, che sia in grado di contribuire alla diagnosi precoce con minori risultati falsi positivi e falsi negativi rispetto al PSA. Ciò permetterebbe di curare prima i pazienti, ottenendo esiti migliori ed evitando diagnosi tardive.
Alcuni studi internazionali hanno mostrato che il test del PSA dà qualche vantaggio sul tumore. Lo suggeriscono, per esempio, i risultati di un follow up a oltre 10 anni dalla diagnosi, ottenuti grazie a uno studio terminato nel 2011 e condotto in 15 Paesi europei con il coordinamento di Fritz Schröder e colleghi, dell’Erasmus University di Rotterdam, nei Paesi Bassi. Questi dati hanno mostrato che lo screening su alcune fasce di popolazione intorno ai 50 anni d’età porterebbe a una riduzione della mortalità del 30 per cento circa. Si tratta di risultati ancora più convincenti rispetto a quelli per lo screening del tumore della mammella.
“Il tema è delicato” conclude Montorsi. “Conta tenere a mente che di fronte a un risultato positivo di PSA, non è scontato che ci sia un tumore, che le cure non sempre sono necessarie, e che bisogna sempre valutare che cosa è meglio per ogni paziente e per ogni servizio sanitario, rimanendo saldi nell’ottica di evitare interventi non necessari.”
Cristina Da Rold