Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Ormai gli esperti hanno pochi dubbi: fare il test del PSA per la prostata tutti gli anni non serve e può indurre una cascata di esami e cure inutili. Ma questo non vuol dire che non si debba fare niente.
Il cancro della prostata è un problema di salute pubblica importante: con quasi 40.000 casi l'anno costituisce infatti uno dei tumori più diffusi. Prevenirlo con un test di screening che lo identifichi precocemente è stata, fino a pochi anni fa, la strategia di scelta dei medici, che avevano a disposizione un esame, che misura il livello nel sangue dell'antigene prostatico-specifico (PSA). Dopo quasi trent'anni di utilizzo e di studi sul suo impatto, la strategia dello screening a tappeto deve essere rivista alla luce dei dati scientifici sugli esiti ottenuti, per lasciare posto a nuovi approcci più complessi e personalizzati.
"Il problema è che il cancro della prostata si è dimostrato essere, in molti casi, una malattia relativamente benigna con un'evoluzione lentissima" spiega Ottavio De Cobelli, direttore della Chirurgia urologica dell'Istituto europeo di oncologia di Milano. "Nel momento in cui il test di screening rileva che qualcosa non va, non siamo però in grado di dire se l'evoluzione sarà lenta o veloce e quindi il più delle volte si tende a intervenire. Le linee guida suggeriscono l'alternativa della "vigile attesa", cioè la possibilità di sorvegliare l'andamento della malattia con appuntamenti ravvicinati nel tempo, ma questo approccio richiede un'organizzazione che hanno solo i centri specializzati e anche una buona esperienza, che si acquisisce solo vedendo molti pazienti". Nella maggior parte dei casi, però, sono gli stessi pazienti che di fronte a un PSA fuori dai valori di norma non se la sentono di stare a guardare.
Da molti anni ormai la misurazione del PSA è stata "derubricata" da test di screening a test di diagnosi su base individuale: andrebbe prescritta dal medico solo in casi specifici in cui vi siano ragioni per sospettare la comparsa della malattia, ma così non è. In italia, come in molti altri Paesi, si continua a usare questo test nella convinzione che un esame in più non possa far male. Proprio contro questa mentalità (spesso condivisa dai pazienti) si sono scagliati diversi scienziati, primi fra tutti Julia Hayes del Dana Farber Institute of Technology Asessment e Michael Barry della Harvard Medical School, che hanno recentemente pubblicato sulla rivista JAMA una revisione dei principali studi sulla questione. "Abbiamo preso in considerazione i due più grossi studi randomizzati controllati sullo screening con PSA: uno statunitense, il PLCO, e uno europeo, l'ERSPC. Lo studio europeo è particolarmente importante perché è l'unico, tra i più recenti, ad aver mostrato un limitato beneficio dai controlli a tappeto".
Grazie alla combinazione di queste ricerche, i due esperti hanno confermato quanti altri studi avevano già mostrato in modo statisticamente meno solido: lo screening del PSA aumenta l'incidenza del cancro prostatico (cioè il numero di casi che vengono diagnosticati) ma non ha effetti sulla mortalità. In pratica, sottoporsi o meno al test non cambia l'aspettativa di vita degli uomini tra i 55 e i 69 anni di età, mentre aumenta il rischio di essere sottoposti a esami e cure invasivi e inutili, non privi di effetti collaterali. Nonostante ciò, gli stessi autori non se la sentono di escludere del tutto la possibilità di prescrivere il test: "Solo gli uomini che esprimono una preferenza spiccata per lo screening dovrebbero essere sottoposti al PSA, dopo aver ricevuto un'informazione completa sui possibili danni. Altre strategie possibili per ridurre i rischi consistono nel considerare uno screening biennale invece che annuale, un livello limite di PSA più alto di quello attuale per procedere con la biopsia oppure una terapia iniziale di tipo conservativo e non chirurgica".
Ancora più negativi nei confronti dello screening sono gli esperti britannici, due dei quali, Timothy Wilt e Philipp Dahm, hanno pubblicato l'anno scorso sul British Medical Journal un'analoga revisione, estesa anche ad alcuni importanti studi condotti in Scandinavia. Le loro raccomandazioni consentono lo screening solo agli uomini tra 55 e 69 anni che lo richiedono e che non siano affetti da altre malattie (perché in quel caso il rischio di incorrere in problemi per via di eventuali esami successivi è ancora più alto) e non andrebbe nemmeno proposto.
"In Italia non siamo così drastici e, soprattutto, non usiamo più la singola misurazione di PSA per decidere se sottoporre un paziente a biopsia" specifica De Cobelli. "La scelta dipende dal quadro generale, dai sintomi e da altri esami, come l'ecografia. E poi osserviamo l'andamento del PSA nel tempo, più che il singolo dato: se si mantiene stabile o scende, nessun pericolo. Se sale, allora è bene approfondire i controlli.
Alcuni test di screening, tra i quali la misurazione del PSA, non dovrebbero essere consigliati a persone che hanno un'aspettativa di vita di meno di 10 anni, perché questo può provocare più danni che benefici. Lo afferma uno studio pubblicato su Jama Internal Medicine curato da Ronald Chen e collaboratori, che sono andati a vedere che cosa accade a individui molto avanti con gli anni oppure molto malati. "Il danno procurato da test inutili non è solo economico per la collettività, come si potrebbe pensare, ma incide sulla salute e la qualità della vita della persona stessa" spiega Chen nel suo lavoro. Analizzando le cartelle cliniche di migliaia di statunitensi, Chen ha scoperto che oltre la metà degli over 65 è ad alto rischio di mortalità per altre malattie viene sottoposto al test per il PSA. In Italia il fenomeno è più circoscritto perché la presenza di un Sistema sanitario nazionale frena gli sprechi, ma l'errore di ragionamento che sta dietro queste prescrizioni è lo stesso: la convinzione che diagnosticare precocemente abbia sempre un senso, indipendentemente dall'aspettativa di vita della persona. Invece non è così: i tumori della prostata (ma anche quelli della cervice uterina e alcuni di quelli al seno nella donna sopra i 70 anni) si evolvono molto lentamente, soprattutto in età avanzata. Per queste persone è più pericoloso e invalidante un intervento chirurgico o una chemioterapia del tumore stesso, che il più delle volte rimarrebbe non diagnosticato fino al decesso per altre cause.
Uno dei problemi che incontrano i pazienti nel decidere come gestire sia lo screening sia le cure per il cancro della prostata è la scarsa conoscenza della funzione di questo organo e degli effetti che le terapie possono avere sulla sua funzionalità. E spiegare le cose a voce talvolta non è efficace. Ecco perché un gruppo di oncologi dell'Università della Pennsylvania a Filadelfia, sotto la guida di Daniel E. Wang, ha prodotto un video informativo e lo ha fatto vedere a 56 pazienti con basso livello di scolarità. Il video spiega come funziona la prostata e il suo ruolo nel sistema urinario e sessuale, ma anche cosa significano esattamente termini come incontinenza e impotenza. I ricercatori hanno poi verificato che anche in persone di basso livello culturale, uno strumento di questo tipo aumenta la comprensione dei problemi a cui vanno incontro dal 14 al 50 per cento circa per quel che riguarda la funzione urinaria e dal 58 all'84 per cento per quel che riguarda quella sessuale. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cancer. "Migliorare la comprensione generale della funzione dell'organo è essenziale per essere certi che il paziente faccia la scelta più adatta al proprio caso in una malattia in cui sono possibili molti approcci diversi, da quello più interventista a quello che si limita a stare a guardare l'evoluzione del disturbo" conclude Wang.
Daniela Ovadia