Ultimo aggiornamento: 23 gennaio 2020
Un nanometro è un miliardesimo di metro: difficile immaginare qualcosa di così piccolo, equivalente a 1/80.000 dello spessore di un capello, uno spazio nel quale potrebbero stare stipati circa dieci atomi di idrogeno. Eppure è su questa scala che lavorano i biofisici che si occupano di nanotecnologie: materiali, strumenti e sistemi farmacologici talmente piccoli da poter interagire con le cellule. "Una cellula ha un diametro che va dai 10.000 ai 20.000 nanometri. Ciò significa che qualsiasi prodotto intorno ai 100 nanometri (la scala sulla quale lavorano gli scienziati in ambito biomedico) è in grado di entrare nella cellula e persino negli organelli che la compongono e di interagire col DNA e con le proteine" spiega Marco Foiani, direttore dell'Istituto FIRC di oncologia molecolare e vicepresidente del Centro europeo di nanomedicina (CEN), un consorzio che raggruppa 14 tra centri di ricerca pubblici e privati per promuovere la ricerca sulle applicazioni delle nanotecnologie in medicina.
"Un sensore nanotech potrebbe essere capace di identificare i marcatori biologici di una malattia, in primo luogo del cancro, anche in poche cellule o in un minuscolo campione di tessuto". In effetti si spera che le nanotecnologie aiutino a mettere a punto nuovi strumenti diagnostici ma anche nuovi vettori, cioè substrati ai quali appoggiare farmaci che verranno rilasciati, grazie alle piccolissime dimensioni del trasportatore, esattamente laddove serve all'interno della cellula. Prima che ciò si possa fare e prima che siano disponibili strumenti efficaci per la diagnosi e la cura del cancro, è necessario studiare meglio l'interazione delle nanoparticelle con i sistemi biologici. "A livello nano la materia può assumere comportamenti atipici, e seguire leggi diverse da quelle della fisica classica" spiega Foiani. "Questo fa delle nanotecnologie uno strumento teoricamente molto potente ma anche da verificare con tutte le cautele della ricerca". I comportamenti atipici delle nanoparticelle sono anche all'origine di possibili effetti collaterali sugli organismi biologici, ancora tutti da studiare. Poiché i nanomateriali hanno superfici molto ampie se rapportate al loro volume, fenomeni come l'attrito sono molto più consistenti che in sistemi più grandi. Inoltre le nanoparticelle sono così piccole che l'organismo, in determinate circostanze, può eliminarle così in fretta da rendere la loro azione, come farmaco o come strumento diagnostico, del tutto inutile; viceversa è possibile che grandi quantità di nanoparticelle si accumulino negli organi dando luogo a fenomeni di tossicità. "Per quel che riguarda il cancro, le maggiori promesse si hanno attualmente nel campo diagnostico" spiega Foiani. "La malattia oggi può essere riconosciuta, nella maggior parte dei casi, solo quando assume dimensioni macroscopiche ma noi sappiamo che è provocata, ai suoi esordi, da alterazioni molecolari a livello del DNA". Strumenti capaci di entrare nelle singole cellule e scoprire dove e come si annida l'alterazione potenzialmente pericolosa sarebbero quindi preziosissimi. Un altro ambito nel quale si attende con ansia l'arrivo delle nanotecnologie è la ricerca stessa. Per testare nuovi farmaci o nuovi strumenti su campioni di tessuti tumorali, è spesso necessario distruggere le cellule prelevate dai pazienti mediante biopsie o interventi chirurgici. Un test effettuato su scala nano, invece, potrebbe lasciare le cellule e i tessuti intatti, permettendo di riutilizzarli in caso di insuccesso per provare una soluzione diversa: un bel vantaggio soprattutto per quanto riguarda i tumori rari, la cui ricerca è frenata anche dalla scarsità di materiale biologico a disposizione degli scienziati. "Uno dei nanostrumenti che ha già raggiunto un discreto sviluppo è la cosiddetta 'mensola' o cantilever, un supporto che può essere modificato per trasportare molecole in grado di legarsi a sequenze di DNA alterato o a proteine presenti in determinati tipi di cancro" spiega Foiani. Monitorando i punti in cui i cantilever si "agganciano" al DNA, i ricercatori sono in grado di scovare le alterazioni del codice genetico. Anche i nanopori, già testati in alcuni laboratori, potrebbero migliorare le diagnosi. Si tratta di minuscoli pori sintetici in grado di far passare un solo filamento di DNA alla volta, come una sorta di setaccio. Mentre il DNA scorre nel nanoporo, i ricercatori possono misurare forma e proprietà elettriche di ogni base col vantaggio che il sistema funge anche da strumento di lettura del codice genetico. Per segnare sul DNA il punto in cui è presente un'alterazione, si possono utilizzare i nanotubi al carbonio, indicati soprattutto in ambito oncologico. L'effetto è quello della bandierina segnaletica: l'insieme dei nanotubi indica agli scienziati la dislocazione delle mutazioni, un'informazione importante in quanto può suggerire in che modo si evolverà la malattia. "Le nanotecnologie aiuteranno anche a eliminare il cancro dalle cellule malate senza danneggiare quelle sane" spiega Foiani. Oltre che come trasportatrici di farmaci, le nanoparticelle potranno veicolare nei tessuti materiali in grado di assorbire la luce a determinate lunghezze d'onda. Grazie a questa proprietà le nanoparticelle si surriscaldano ed eliminano la cellula nella quale si trovano e solo quella. Per riconoscere le cellule cancerose è anche possibile attaccare un anticorpo al vettore. "Vi sono molte altre tecnologie in fase avanzata di sviluppo" conclude Foiani. " Le potenzialità sono immense anche se c'è ancora molto da studiare. La natura interdisciplinare di questo ambito della ricerca è anche la sua maggiore difficoltà: per questo non ha senso che una singola istituzione crei il proprio laboratorio ma è più logico, come è stato fatto a Milano, unire le forze perché medici, biologi, fisici, ingegneri e tanti altri perseguano insieme lo stesso scopo".
Per portare farmaci all'interno delle cellule malate e dritti sul bersaglio i nanotecnologi hanno inventato i dendrimeri. Si tratta di molecole polimeriche dotate di un cuore, nel quale viene stoccata la sostanza da trasportare, e numerosi rami che fungono da "sensori" per l'identificazione del bersaglio. I dendrimeri sono già utilizzati in ambito sperimentale e non sono una scoperta recente: sono stati costruiti negli anni Settanta, all'alba delle nanotecnologie, dal biochimico Donald Tomalia. Per "montarli", Tomalia inventò una meccanismo simile a quello con cui si costruiscono i cristalli: le strutture si aggiungono per apposizione intorno a un nucleo che fa da promotore della reazione.
Tutto quello che serve per capire l'argomento. E molte animazioni per chiarire i meccanismi d'azione.
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