Ultimo aggiornamento: 16 dicembre 2024
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La leucemia linfatica cronica (LLC) è un tipo di tumore ematologico che consiste in un accumulo di linfociti B nel sangue, nel midollo osseo e negli organi linfatici, come i linfonodi e la milza.
I linfociti sono cellule del sistema immunitario che sorvegliano l’organismo e attivano le difese contro microrganismi o le cellule tumorali. In base al tipo di risposta che sono in grado di attivare si distinguono in linfociti B, produttori di anticorpi, o T, responsabili dell’attacco alle cellule tumorali o infettate da virus.
Nella leucemia linfatica cronica un linfocita B acquisisce delle anomalie, di solito genetiche. Inoltre, riceve dei segnali dall’ambiente circostante che fanno continuamente moltiplicare la cellula e danno origine a un cosiddetto clone linfocitario, cioè un insieme di cellule uguali tra loro che si accumulano progressivamente nel tempo.
La leucemia linfatica cronica è il tipo di leucemia dell’adulto più comune nei Paesi occidentali. Nel mondo ogni anno colpisce circa 5 persone ogni 100.000, rappresentando circa il 30 per cento di tutti i casi di leucemia. È tipica delle persone anziane: l’età media alla diagnosi è attorno ai 72 anni, e raramente viene diagnosticata prima dei 40. L’incidenza aumenta infatti con l’età, con un picco di frequenza a 60-70 anni. Inoltre, colpisce in misura leggermente maggiore gli uomini rispetto alle donne.
Come molti tumori, anche la leucemia linfatica cronica potrebbe essere provocata da fattori ambientali che interagiscono con caratteristiche biologiche di ciascun individuo. Nell’ambito dei fattori di rischio ambientali, alcune ricerche hanno suggerito una possibile relazione con una prolungata esposizione ad alcuni pesticidi.
Le evidenze sul ruolo dei fattori di rischio ambientali sono tuttavia scarse, mentre diversi studi hanno dimostrato che fattori genetici o familiari possono predisporre allo sviluppo della malattia. Nei parenti di primo grado di pazienti affetti da leucemia linfatica cronica l’incidenza è infatti maggiore rispetto a quella osservata nel resto della popolazione.
La maggior parte dei casi di leucemia linfatica cronica ha un decorso indolente, ovvero lento e con sintomi piuttosto blandi. Per questo tipicamente non richiede un immediato trattamento al momento della diagnosi. Circa un terzo dei pazienti non avrà mai necessità di cure nel corso della vita, mentre nei restanti casi la malattia si espanderà progressivamente, a velocità differente nei pazienti, fino a necessitare l’introduzione di una terapia specifica per il controllo della malattia e dei sintomi associati.
In base alla velocità di progressione della malattia e alla risposta alla terapia, si possono distinguere casi più lenti nella evoluzione, che necessitano di trattamenti anche a distanza di un decennio dalla diagnosi iniziale e che rispondevano molto bene anche alle tradizionali chemioterapie. Altri pazienti invece manifestano una malattia più aggressiva, che porta alla necessità di trattamenti dopo pochi mesi o anni dalla diagnosi. Questi ultimi in genere non beneficiano a lungo termine dell’utilizzo di chemioterapia. Le due forme di malattia sono in molti casi distinte dalla presenza o assenza di caratteristiche biologiche tra cui difetti genetici a carico del gene TP53 o mutazioni nei geni delle immunoglobuline (IGHV). Di solito queste mutazioni non sono ereditarie, ma acquisite, e sono infatti presenti soltanto nelle cellule tumorali.
La leucemia linfatica cronica viene spesso diagnosticata per caso, nel corso di un esame del sangue eseguito per un’altra ragione, oppure perché si nota un linfonodo ingrossato nel collo, nelle ascelle o all’inguine. Infatti nella maggior parte dei casi oggi la diagnosi avviene in uno stadio ancora senza sintomi.
Con il progredire della malattia possono comparire sintomi comuni anche alle altre leucemie, provocati dall’invasione del midollo osseo da parte delle cellule maligne che soppiantano le cellule ematiche normali. Ciò può comportare la comparsa di anemia (diminuzione dei globuli rossi) con possibile stanchezza, pallore, dispnea (fiato corto) e piastrinopenia (riduzione delle piastrine) che raramente porta a emorragie. L’aumento dei linfociti impedisce, inoltre, la produzione nel midollo osseo delle altre cellule di difesa: per questo i pazienti sono spesso immunodeficienti e quindi predisposti a infezioni, anche gravi. La malattia può progressivamente dare adenopatie, ossia l’ingrossamento dei linfonodi, sia nelle stazioni superficiali quali collo, ascelle, inguine, ma anche profonde nell’addome. I linfonodi ingrossati in genere hanno consistenza elastica e non sono dolorosi al tatto.
È possibile anche l’ingrossamento della milza (splenomegalia) e, più raramente, del fegato (epatomegalia). Con l’avanzare della malattia i pazienti possono anche lamentare altri sintomi (i cosiddetti sintomi B, comuni anche ad altre malattie leucemiche o linfomatose) quali febbre non spiegata, sudorazione notturna e febbricola serotina (febbre leggera che si presenta la sera).
Alcuni pazienti possono presentare caratteristici disturbi autoimmuni, producendo anticorpi contro le proprie cellule del sangue, che vengono così distrutte. Le più frequenti sono l’anemia emolitica e la piastrinopenia autoimmune, che colpiscono rispettivamente i globuli rossi e le piastrine.
Attualmente non è possibile stabilire indicazioni precise per la prevenzione della leucemia linfatica cronica, poiché le cause della malattia non sono del tutto chiare.
In presenza di sintomi sospetti e di segni che fanno pensare a una possibile leucemia, il medico prescrive come primo esame un prelievo di sangue dal quale è possibile valutare il numero e l’aspetto delle diverse cellule. Si sospetta una malattia leucemica se vi è una linfocitosi persistente, cioè un numero di linfociti nel sangue superiore a 5.000 per millimetro cubo (mmc o mm3) che non diminuisce nel tempo. Sono però necessari ulteriori esami per la conferma finale. L’iter diagnostico procede con un esame del sangue specialistico, l’esame citofluorimetrico o immunofenotipo (eseguito sul sangue periferico), che caratterizza le molecole di superficie delle cellule di leucemia linfatica cronica per distinguerle dai linfociti normali e da altre forme di linfoma.
In una percentuale di pazienti, il sospetto di leucemia linfatica cronica può prendere il via dall’accorgersi casualmente di un ingrossamento non dolente di un linfonodo superficiale, oppure in seguito a un esame radiologico effettuato per altri motivi (per esempio prima di un’operazione). In assenza di una linfocitosi nel sangue periferico, sarà necessario effettuare una biopsia del linfonodo ingrossato per distinguere la leucemia linfatica cronica da altri linfomi. La biopsia dei linfonodi può essere eseguita di routine anche nelle fasi avanzate di malattia, in caso di recidiva o quando vi è un sospetto di evoluzione della leucemia linfatica cronica verso un linfoma aggressivo (possibilità rara che si chiama trasformazione di Richter). Questa complicanza è più comune con le recidive successive al primo trattamento, soprattutto se chemioterapico.
A differenza delle altre patologie oncoematologiche, alla diagnosi non sono richiesti l’agoaspirato del midollo osseo né la biopsia ossea. È però consigliato effettuare tali esami prima di iniziare un eventuale trattamento. Al momento della diagnosi può essere utile eseguire una radiografia del torace (come valutazione iniziale, senza necessità di ripeterla nel corso dei controlli successivi) e un’ecografia dell’addome (che invece potrà far parte degli accertamenti regolari ogni 6-12 mesi alle successive visite di controllo). In casi selezionati o prima di iniziare la terapia, talvolta si effettua anche una tomografia computerizzata (TC) di collo, torace o addome senza e con mezzo di contrasto per valutare le linfadenopatie profonde (aumento dimensioni dei linfonodi) e organomegalie (aumento dimensioni degli organi), così da evitare inutili e ripetute esposizioni alle radiazioni ionizzanti.
I fattori biologici (assetto dei geni TP53 e IGHV), che hanno una valenza prognostica (in quanto predicono l’andamento della malattia) e predittiva (in quanto predicono la risposta al trattamento), possono essere valutati mediante esami molecolari sul sangue periferico o, raramente, sul midollo osseo. Analogamente alla biopsia ossea e alla TC, tali esami sono consigliabili nel momento in cui c’è la necessità di iniziare una terapia.
La leucemia linfatica cronica è una malattia dal decorso variabile: alcuni pazienti possono mantenersi stabili per molti anni, mentre altri possono andare incontro a un rapido aggravamento nel giro di mesi o pochi anni.
Esistono diversi sistemi di stadiazione, che assegnano cioè uno stadio alla malattia in base a parametri predefiniti. I più comuni sono:
Questi sistemi di classificazione sono molto utili nella pratica clinica, in quanto permettono di valutare la necessità di trattamento di ciascun paziente in base a semplici caratteristiche cliniche, quali la presenza di anemia, piastrinopenia, splenomegalia e linfadenopatie.
In aggiunta alla stadiazione clinica vi sono molteplici fattori biologici la cui valutazione serve a stabilire più precisamente la prognosi e a prevedere la risposta ai trattamenti:
Come accennato in precedenza, esistono fattori predittivi di risposta alla chemioterapia quali le anomalie del gene TP53 (la delezione 17p e la mutazione del gene) e l’assenza di mutazioni nei geni IGHV, che indicano la necessità di evitare trattamenti immunochemioterapici in caso di disponibilità di terapie innovative mirate.
La leucemia linfatica cronica è una malattia a crescita lenta e di conseguenza, una volta effettuata la diagnosi, come accennato in precedenza, la maggior parte dei pazienti non deve essere subito sottoposta alle terapie. Dopo la diagnosi si adotta un atteggiamento di vigile attesa (detto “wait and see” o “watch and wait”), in cui cioè si “aspetta” e nel frattempo si “osserva” l’andamento della malattia effettuando controlli periodici. Il trattamento inizia solo quando la malattia diventa sintomatica.
I seguenti criteri per decidere se e quando iniziare la terapia vanno sempre valutati insieme a un medico per escludere altre possibili cause, per esempio infezioni (per febbre e sudorazione) e carenza di ferro (per l’anemia):
Una volta deciso che occorre trattare la malattia, oggi vi è un ampio spettro di terapie per la leucemia linfatica cronica. La scelta viene fatta in base all’età dei pazienti, alle malattie concomitanti e, soprattutto, alle caratteristiche della malattia. È importante definire la presenza o meno di fattori di rischio biologici prima di iniziare qualsiasi trattamento. Esistono infatti farmaci mirati efficaci per le forme di leucemia linfatica cronica caratterizzate dalla presenza di delezione 17p o mutazione TP53, che comportano resistenza alla chemioterapia, o dallo stato non mutato dei geni IGHV, che indica una risposta non ottimale.
Oggi la prima linea di trattamento per la maggior parte dei pazienti consiste nell’utilizzo dei nuovi farmaci biologici mirati (le cosiddette terapie a bersaglio molecolare) utilizzati da soli in modo continuativo, tra cui gli inibitori di BTK. Altri trattamenti, che possono essere utilizzati in associazione, sono anticorpi monoclonali anti-CD20 (obinutuzumab) e inibitori di BCL2, con schemi di trattamento a durata fissa. L’immunochemioterapia, che comprende l’associazione di agenti chemioterapici (come fludarabina insieme a ciclofosfamide o la bendamustina) in combinazione con un altro anticorpo monoclonale anti-CD20 (rituximab), può ancora trovare una applicazione solamente nei pazienti con i geni IGHV mutati.
I farmaci disponibili, seppur molto efficaci nel tenere sotto controllo la malattia per periodi prolungati anche di anni, non sono in grado di guarire i pazienti. Al momento della ricaduta, attesa nella maggior parte dei casi, si possono applicare successivamente e in modo sequenziale tutti i trattamenti che non sono stati utilizzati in prima istanza, aggiungendo ulteriori anni di controllo della malattia e dei sintomi correlati.
I nuovi farmaci biologici, agendo su un bersaglio preciso sono più efficaci e meglio tollerati rispetto alla tradizionale chemioterapia, e per questo hanno migliorato molto la prognosi dei pazienti con leucemia linfatica cronica.
Oggi il trapianto allogenico (da familiare o da donatore) di cellule staminali ematopoietiche è indicato in casi selezionati, tra cui pazienti giovani con recidiva di leucemia linfatica cronica resistente a tutti i nuovi farmaci biologici e con caratteristiche biologiche sfavorevoli. Può anche essere preso in considerazione per pazienti in cui la malattia è progredita in un linfoma aggressivo (sindrome di Richter).
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Testo originale pubblicato in data 24 gennaio 2018
Testo aggiornato pubblicato in data 16 dicembre 2024
Agenzia Zoe