Esistono almeno cento diversi tipi di cancro, accomunati però da quattordici proprietà distintive. È anche su queste proprietà, hallmarks in inglese, che lavorano i ricercatori in oncologia.
Tutte le forme di cancro, per quanto diverse tra loro, hanno delle caratteristiche comuni, dette in inglese hallmarks. Si tratta di proprietà biologiche che vengono acquisite dalle cellule durante lo sviluppo del tumore, un processo che può durare anche molti decenni. L’ordine e il modo in cui si presentano le caratteristiche possono variare, anche per lo stesso tipo di cancro, in ogni paziente e malattia.
La ricerca oncologica è sempre più indirizzata a un approccio mirato alla diagnosi e alla cura del tumore. Con tale approccio i medici e i riceratori tengono conto non solo della localizzazione del tumore, ma anche delle sue proprietà biologiche, tra cui il profilo genetico. La speranza è di arrivare a trattamenti più precisi e tollerabili per la cura delle malattie oncologiche, sviluppando nuove strategie terapeutiche per ogni proprietà del tumore.
Gli hallmarks of cancer sono stati studiati e divulgati in pubblicazioni successive a partire dal 2000 da due ricercatori americani, Robert Weinberg e Douglas Hanahan. Nel tempo le caratteristiche sono cresciute di numero, in parallelo all’aumento delle conoscenze e della consapevolezza della complessità dei processi tumorali. L’ultima pubblicazione, del 2022, ha portato il numero totale a 14 hallmarks. La prima edizione, nel 2000, ne comprendeva 6, mentre nella seconda, del 2011, erano già arrivati a 10.
Le cellule tumorali si riproducono molto più velocemente di quelle sane, senza seguire le normali regole che ne controllano la proliferazione. Questa proprietà è dovuta anche agli oncogeni, che specificano proteine coinvolte nella trasmissione degli stimoli proliferativi. A causa di mutazioni nel DNA dei loro geni, queste proteine possono conferire a una cellula la capacità di replicarsi anche in assenza di stimoli specifici, oppure ignorando i segnali inibitori.
Come funziona
Alcuni oncogeni contengono le istruzioni per un ampio gruppo di proteine note come fattori di crescita, in grado di stimolare la proliferazione e il differenziamento cellulare. Per svolgere la propria funzione, i fattori di crescita si legano in genere a un recettore sulla superficie della cellula. Nel cancro, mutazioni del DNA possono fare sì che l’interazione tra un fattore di crescita e il proprio recettore risulti alterata. Ne sono un esempio le mutazioni a carico del gene che codifica per il recettore EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor), coinvolto in molti tipi di cancro. La costante attivazione del recettore porta alla proliferazione cellulare incontrollata.
Dove va la ricerca
L'importanza dei fattori di crescita e dei loro recettori nello sviluppo del cancro ha fatto sì che siano stati selezionati dai ricercatori come bersagli specifici di terapie mirate. Sono in uso nel trattamento di molti tumori, tra cui quello della mammella, del polmone e di alcuni tipi di leucemie. I ricercatori stanno cercando di identificare in modo sempre più preciso i segnali e i meccanismi che stimolano la crescita incontrollata delle cellule, in modo da riconoscere nuovi bersagli nella catena di reazioni che va dai fattori di crescita alla moltiplicazione incontrollata delle cellule.
Il metabolismo è quel complesso di reazioni chimiche che trasforma i nutrienti in energia e molecole necessarie alla vita cellulare, come proteine e acidi nucleici. La cellula cancerosa ha caratteristiche metaboliche diverse da quella sana. Per esempio sfrutta la glicolisi aerobica, un insieme di reazioni che permettono la trasformazione del glucosio utilizzando ossigeno. Questa caratteristica tumorale fu osservata già nella prima metà del Novecento da un medico tedesco, Otto Warburg, che per la scoperta meritò il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1931. Ancora oggi questo tipo di metabolismo, tipico delle cellule tumorali, è chiamato effetto Warburg.
Come funziona
Il glucosio è lo zucchero più comune nell’alimentazione umana e il processo nel quale questa molecola viene modificata per ricavarne energia è chiamato glicolisi. Le cellule cancerose usano molto più di quelle sane la glicolisi per ottenere energia. Di solito le reazioni che scindono il glucosio per ricavarne energia avvengono in assenza di ossigeno. Non è il caso del cancro, la cui glicolisi è invece aerobica. Non è ancora del tutto chiara la ragione biologica per cui si osserva quest’effetto. Si pensa che permetta di agevolare la diffusione di sostanze nutritive. Sfruttando la glicolisi aerobica, le cellule tumorali ricavano in realtà meno energia rispetto a quanta ne è fornita da altri percorsi metabolici. Ottengono però più molecole utili a costruire DNA e proteine, e questo può essere un vantaggio per cellule che continuano a dividersi e proliferare.
Dove va la ricerca
La glicolisi aerobica è necessaria alla sopravvivenza tanto delle cellule cancerose quanto di quelle sane. Sebbene al momento non esistano farmaci in grado di colpire questo particolare aspetto del cancro senza danneggiare gravemente anche le cellule sane, i ricercatori stanno studiando le vie metaboliche presenti nelle cellule cancerose.
Apoptosi è sinonimo di morte cellulare programmata. Le cellule sane di molti tessuti (pelle, sangue eccetera) vanno regolarmente incontro ad apoptosi, un modo per l’organismo di evitare un invecchiamento precoce e un pericoloso accumulo di cellule con molti difetti e mutazioni. Nel cancro sono presenti cellule in grado di sfuggire a questo meccanismo.
Come funziona
Le cellule tumorali sfuggono all’apoptosi e anche per questo sono spesso in grado di riprodursi praticamente all’infinito.
Dove va la ricerca
I ricercatori che lavorano in questo campo stanno tentando di sviluppare terapie che riattivino i meccanismi di apoptosi alterati o inattivi nelle cellule cancerose. Il venetoclax è il primo farmaco di questo tipo a essere in fase di sperimentazione clinica per la leucemia mieloide acuta, ed è inoltre in studi preclinici per altre forme tumorali.
Alcuni tipi di cellule del nostro organismo, quando invecchiano, muoiono e vengono sostituite da nuove cellule più giovani. Tra gli elementi cellulari che segnalano l’invecchiamento della cellula vi sono i telomeri, ossia le estremità dei cromosomi. Man mano che una cellula invecchia, i telomeri si accorciano. Ciò non avviene però sempre nelle cellule tumorali, che spesso mantengono i propri telomeri a una lunghezza maggiore.
Come funziona
Nelle cellule sane i telomeri si accorciano a ogni replicazione cellulare; quando diventano troppo corti, la cellula va incontro a senescenza. Ciò significa che le cellule si possono replicare solo un determinato numero di volte. L'accorciamento dei telomeri nelle cellule sane avviene perché un enzima che permette di mantenerne la lunghezza, detto telomerasi, è inattivo. Nelle cellule cancerose la telomerasi può invece essere riattivata. Di conseguenza i telomeri non si accorciano nel tempo e la cellula non segnala il proprio invecchiamento. Questa caratteristica, insieme alla resistenza all'apoptosi, la rende in sostanza immortale.
Dove va la ricerca
L'inattivazione della telomerasi nel cancro, pur non essendo sufficiente da sola a sconfiggere la malattia, è una buona strategia per rendere nuovamente mortali le cellule tumorali. Inibitori di questo enzima sono stati sperimentati con discreto successo in vari tipi di tumore, da quello ovarico fino ad alcune neoplasie ematologiche. Con buoni risultati sono, invece, in corso studi di terapie in grado di riattivare le telomerasi che sfruttano la precisione di CRISPR. È questa una tecnica di ingegneria genetica che permette di tagliare e cucire il DNA.
I geni oncosoppressori codificano per proteine che agiscono inibendo e riducendo la proliferazione cellulare. Il loro ruolo di freno è molto importante per prevenire una crescita incontrollata. Le loro funzioni principali sono l’inibizione di altri geni necessari all’avanzamento del ciclo cellulare, l’interruzione di quest’ultimo in caso di danni al DNA, l’avvio dell’apoptosi (la morte cellulare programmata) e la soppressione della disseminazione di metastasi. Il blocco dei geni oncosoppressori è una tappa fondamentale dello sviluppo di un cancro.
Come funziona
I geni oncosoppressori codificano per un gran numero di proteine con funzioni diverse il cui compito è inibire la proliferazione di cellule vecchie o danneggiate. In tal modo si limita la probabilità che si accumulino cellule con mutazioni che potrebbero dare origine a un cancro. I più noti oncosoppressori sono BRCA1 e BRCA2, che quando sono mutati sono coinvolti nei tumori del seno e dell’ovaio. Vi sono poi APC, che quando è mutato contribuisce al cancro al colon (sindrome di Gardner), e RB, che favorisce analogamente il retinoblastoma. Un altro oncosoppressore molto noto è p53, il cosiddetto guardiano del genoma: quando sono presenti danni al DNA, la proteina codificata da questo gene ha numerose funzioni che inibiscono il cancro. Può agire da fattore di trascrizione per l’attivazione dei meccanismi di riparazione del DNA oppure, se il danno è troppo grave, può indirizzare la cellula all'apoptosi. Le mutazioni che coinvolgono p53 sono fra le più comuni nel cancro.
Dove va la ricerca
Non è semplice trovare terapie efficaci per i tumori che hanno un gene oncosoppressore compromesso o mancante, poiché bisognerebbe ripristinare un gene non più funzionante o perduto. I ricercatori ci stanno provando da tempo, anche con la cosiddetta terapia genica, ossia con il tentativo di inserire nelle cellule una copia integra del gene. In laboratorio gli esperimenti hanno dato buoni risultati, da confermare in sperimentazioni cliniche.
Un’altra possibilità è cercare di agire sui geni che impediscono il funzionamento degli oncosoppressori. Alcune molecole implicate nella regolazione del DNA si sono rivelate promettenti da questo punto di vista e sono in fase avanzata di sperimentazione.
La cellula cancerosa acquista mutazioni anche a causa dell’instabilità del genoma: i cromosomi aumentano o diminuiscono di numero, si scambiano tratti di DNA, ne perdono frammenti. Le mutazioni che ne derivano possono essere irrilevanti o possono permettere al cancro di diventare più resistente e aggressivo.
Come funziona
La cellula può accumulare errori attraverso diversi meccanismi. La replicazione del DNA a volte introduce errori casuali nel genoma delle cellule figlie; a volte le mutazioni sono provocate da fattori ambientali. Tra questi, le radiazioni ionizzanti (compresi i raggi UV della radiazione solare) e sostanze chimiche come il fumo di sigaretta. In condizioni normali la cellula riesce a limitare le mutazioni grazie a sistemi che controllano la stabilità del genoma. Gran parte dei danni possono essere riparati. Quando ciò non è possibile, la cellula con danni irreparabili va incontro a morte cellulare programmata (apoptosi). Nel cancro tuttavia ciò non sempre succede, e anche per questo le cellule accumulano mutazioni più rapidamente del normale. Le mutazioni possono costituire un vantaggio selettivo per la cellula tumorale, che genera così cellule figlie sempre più resistenti ai farmaci e sempre più adattate al proprio microambiente, dando origine a un ciclo di proliferazione senza fine.
Dove va la ricerca
Alcuni farmaci in sperimentazione possono limitare l’instabilità genomica, oppure uccidere le cellule danneggiate, agendo ad esempio sulle proteine coinvolte nella riparazione dei danni al DNA. Sebbene l’instabilità genomica possa rappresentare un vantaggio selettivo per il cancro, essa è anche un possibile bersaglio dal punto di vista immunologico. L’accumulo di mutazioni può infatti rendere le cellule tumorali più riconoscibili per le cellule del sistema immunitario. Questa funzione fisiologica dell’organismo è sfruttata dagli approcci di immunoterapia che si basano sul potenziamento della risposta immunitaria contro il tumore.
L'infiammazione è legata al cancro a doppio senso. Infatti, da un lato le cellule tumorali creano intorno a sé un microambiente infiammatorio in cui la crescita è favorita. Dall'altra lato, alcune forme di infiammazione cronica favoriscono l’insorgenza del cancro, ad esempio la colite ulcerosa favorisce l’insorgenza del cancro al colon-retto e l'epatite cronica può creare le condizioni per lo sviluppo del cancro al fegato.
Come funziona
Se da una parte l’infiammazione di alcuni tessuti crea un ambiente favorevole per l’insorgenza del cancro, come avviene nell’intestino, dall’altra è il cancro stesso che crea attorno a sé un microambiente infiammatorio favorevole alla proliferazione.
Durante un’infiammazione le cellule rilasciano citochine, ossia molecole che permettono la comunicazione tra le cellule del sistema immunitario e tra queste e gli altri tessuti. Alcune delle principali citochine, come TNF-α e IL-6, sono in grado di stimolare la proliferazione, la resistenza all’apoptosi e la disseminazione delle cellule tumorali. È stato inoltre dimostrato che le sostanze rilasciate durante l’infiammazione sono in grado di ridurre i livelli di p53, un importante oncosoppressore.
Dove va la ricerca
Il trattamento con farmaci antinfiammatori può ridurre l’infiammazione e con essa la formazione o la crescita di alcuni tipi di tumore. Per esempio, sono in corso di studio i farmaci anti-infiammatori non steroidei e gli inibitori della ciclossigenasi 2, per contrastare la poliposi familiare del colon, una condizione ereditaria che predispone all’insorgenza di cancro all’intestino.
Il nostro sistema immunitario in condizioni normali è in grado di riconoscere ed eliminare le cellule anomale, tra cui quelle con mutazioni e quelle che possono dare origine a tumori. Ciò accade innumerevoli volte, dato che produciamo continuamente cellule mutate che vengono eliminate prima di dare origine a una malattia. Tuttavia le cellule tumorali a volte sfuggono a questo controllo.
Come funziona
In quasi tutti i tessuti tumorali sono presenti linfociti (o globuli bianchi). A volte queste cellule agiscono come “poliziotti corrotti”. In particolare i macrofagi aiutano il cancro a crescere e a diffondersi. I meccanismi con cui lo fanno sono diversi: agevolano la formazione di vasi sanguigni che portano nutrienti e ossigeno alle cellule tumorali, inibiscono l’azione di difesa dei linfociti T e producono sostanze infiammatorie che contribuiscono a creare un ambiente favorevole allo sviluppo del cancro.
Dove va la ricerca
Numerose strategie terapeutiche sono mirate alle cellule del sistema immunitario infiltrate nel tumore e a quelle che sopprimono la risposta immunitaria. Inoltre sappiamo che alcuni farmaci chemioterapici agiscono causando nelle cellule cancerogene una morte detta immunogenica: le rendono riconoscibili alle cellule del sistema immunitario, che riescono così a ucciderle. La più recente immunoterapia comprende trattamenti a base di anticorpi monoclonali, inibitori dei checkpoint immunitari e terapie cellulari, in parte già in clinica e in parte in sperimentazione. Gli anticorpi monoclonali si attaccano a recettori presenti sulle cellule tumorali e non su quelle sane e in questo modo guidano l’eliminazione delle prime e non delle seconde. Gli inibitori dei checkpoint immunitari tolgono un freno inibitore alla risposta immune contro i tumori. Le terapie cellulari implicano l’infusione nei pazienti di cellule immunitarie dei pazienti stessi, dopo modificazioni genetiche che indirizzano tali cellule contro il tumore.
Un altro filone di ricerca è basato sui vaccini antitumorali. Si tratta di preparazioni farmacologiche che, partendo da frammenti di tessuto prelevati dai pazienti stessi, possono essere in grado di attivare una risposta immunitaria efficace contro la malattia.
Le metastasi sono la causa di morte del 90 per cento circa dei pazienti oncologici. Per questo la capacità di un cancro di formare metastasi, ovvero di migrare dalla sede di origine e colonizzare organi anche molto distanti, è una delle caratteristiche più insidiose delle cellule tumorali.
Come funziona
Le cellule tumorali migrano sfruttando soprattutto il circolo sanguigno e linfatico e riuscendo così ad arrivare a organi lontani dalla sede di origine del cancro. La formazione di metastasi è un processo lungo, complicato e noto in parte. A volte le cellule metastatiche si sono differenziate dalle cellule del tumore primario, da cui si sono staccate, e spesso sono più aggressive e resistenti ai farmaci. Nella formazione di metastasi sono coinvolti molti fattori. Fra questi, la formazione di nuovi vasi sanguigni che nutrono le metastasi di gas e nutrienti con cui crescere, e i macrofagi, le cellule “corrotte” del sistema immunitario, che promuovono il distacco delle cellule metastatiche dal tumore primario e preparano negli organi e nei tessuti distanti un microambiente infiammatorio adatto ad accoglierle.
Dove va la ricerca
Spesso le metastasi sono disseminate in diversi punti del corpo e non possono essere asportate chirurgicamente. Inoltre in genere resistono a farmaci e trattamenti radioterapici. Quando sono localizzate in organi come il cervello non sono facilmente raggiungibili dai farmaci che faticano ad attraversare la barriera ematoencefalica.
Al momento sono in fase di studio farmaci che impediscono alle cellule tumorali di creare dei varchi nelle pareti dei vasi sanguigni, da cui esse potrebbero entrare in circolo e raggiungere altri organi. Altre ricerche sono invece indirizzate contro l’angiogenesi, ossia il processo di formazione di nuovi vasi, in modo che il cancro non possa nutrirsi e crescere. Altre ancora riguardano il microambiente, lo spazio attorno alle cellule tumorali e metastatiche che ne favorisce la crescita e la disseminazione. Vi sono poi studi di immunoterapia con cui i ricercatori cercano di influenzare le cellule del sistema immunitario affinché impediscano lo sviluppo di metastasi.
Per crescere in modo incontrollato, il tumore ha bisogno di molti rifornimenti di sostanze nutritive. È per questo che induce la formazione dei propri vasi sanguigni, attraverso un processo che prende il nome di angiogenesi. Negli ultimi anni sono stati prodotti diversi farmaci che agiscono su questo meccanismo: i cosiddetti inibitori dell'angiogenesi. Il più noto è un farmaco a bersaglio molecolare, il bevacizumab, usato nel cancro del colon, del polmone, del rene e in molti altri tumori solidi.
Come funziona
Le cellule tumorali producono un fattore di crescita, il VEGF-A, che funge da fertilizzante per i vasi sanguigni e ne promuove la crescita. Senza questa proteina i vasi non riescono a svilupparsi e il tumore non riceve abbastanza nutrimento, né ossigeno. Le cellule in breve avvizziscono e muoiono. Il bevacizumab blocca l'azione del VEGF-A e contribuisce a tenere a bada la malattia.
Dove va la ricerca
Il bevacizumab è solo uno degli inibitori dell’angiogenesi: altri meccanismi possono essere modificati per impedire la comparsa di nuovi vasi e sono oggi oggetto di studio. Per esempio è possibile bloccare i geni che permettono alle cellule endoteliali, quelle che rivestono la parete dei vasi, di dividersi e moltiplicarsi. Ultimamente si sta anche studiando l’effetto dei farmaci anti-angiogenici in combinazione all’immunoterapia per potenziarne l’efficacia e contrastare i fenomeni di resistenza al trattamento.
Durante lo sviluppo e la formazione degli organi, le cellule vanno in contro alla cosiddetta differenziazione, ossia si specializzano assumendo forme e funzioni tipiche del tessuto a cui appartengono. Una volta differenziate, le cellule possono perdere la capacità di crescere e proliferare. Le cellule tumorali possono sfuggire alla differenziazione o evitarla del tutto, attraverso i meccanismi della plasticità fenotipica. È come se diventassero capaci di cambiare il proprio “destino” favorendo la progressione neoplastica.
Come funziona
La plasticità fenotipica può produrre diversi effetti. La dedifferenziazione induce una regressione dall’ultimo stadio di differenziazione a uno precedente meno specializzato. La transdifferenziazione avviene invece quando le cellule si specializzano in modo diverso da quello del tessuto di origine. Il processo di differenziazione può essere, altrimenti, direttamente interrotto prima ancora di iniziare.
Dove va la ricerca
Studi ancora molto preliminari stanno analizzando i regolatori molecolari della plasticità sinaptica, con l’obiettivo di identificare farmaci che possano inibire tale processo. In altri studi si sta valutando l’efficacia delle terapie antitumorali che sfruttano le statine e la manipolazione di p21 in cellule in coltura e animali di laboratorio.
Le cellule tumorali sono caratterizzate da una grande instabilità genetica che permette loro di trasformarsi e modificare l’ambiente circostante. Ci sono sempre più evidenze scientifiche sulla capacità di fenomeni epigenetici di indurre altri hallmarks, tra cui la plasticità fenotipica.
Come funziona
Le alterazioni epigenetiche non implicano una modifica diretta alla sequenza di basi del DNA, ma cambiano, per esempio, la possibilità di accedere al materiale genetico. Ciò può bloccare, o viceversa, attivare l’espressione di un gene, o ancora modificarne la regolazione. Modifiche epigenetiche avvengono continuamente e fisiologicamente in risposta a stimoli esterni e interni alle cellule e possono intensificarsi in alcune circostanze, come con l’avanzare dell’età o durante lo sviluppo di un tumore. Per esempio, nel caso del cancro alla mammella, la mancanza di ossigeno nell’ambiente circostante al tumore può indurre la formazione di mutazioni epigenetiche nelle cellule tumorali e aumentarne l’aggressività.
Dove va la ricerca
L’approccio strategico prevalente è di tentare di bloccare l’insorgenza delle specifiche alterazioni epigenetiche che favoriscono la proliferazione tumorale. Le ricerche sugli inibitori epigenetici sono state per ora sperimentate in cellule in coltura e in animali di laboratorio. Tra questi vi è il regolatore PAD4, che, quando è bloccato nelle cellule tumorali, smette di indurne la proliferazione.
Nelle parti del corpo che sono a contatto con l’esterno, per esempio l’apparato gastrointestinale, si trova il cosiddetto microbiota: una moltitudine di microrganismi, che collabora in diversi processi fisiologici, come la digestione o la difesa da agenti esterni. Il microbioma è invece il patrimonio genetico dell’insieme di queste popolazioni di funghi, batteri, virus e altri microorganismi che costituiscono il microbiota. Si tratta di un ecosistema dove alcune popolazioni hanno una funzione protettiva, altre deleteria. In condizioni normali tra loro persiste un equilibrio che non compromette la salute e, anzi, la protegge. Quando, invece, siamo in uno stato di fragilità, per esempio in presenza di un tumore, l’equilibrio può rompersi e alcune popolazioni possono prevalere sulle altre, influire sulla risposta ai farmaci e cambiare il progresso tumorale. Recenti evidenze scientifiche hanno mostrato che variazioni genetiche nel microbioma, dette polimorfismi, possono contribuire all’acquisizione di diversi hallmarks tumorali.
Come funziona
Il funzionamento dipende dalle popolazioni di microrganismi coinvolti. Per esempio, nel caso del cancro al colon alcuni polimorfismi di specifici batteri (tra cui Enterococcus) inducono un’attivazione eccessiva del sistema immunitario, mentre altri promuovono alterazioni epigenetiche, regolano il metabolismo e i cicli di crescita cellulari. Altri ancora possono trovarsi all’interno di tumori solidi (per esempio nel cancro dell’ovaio e del pancreas) influendo sulla risposta immunitaria e sulla sopravvivenza tumorale.
Dove va la ricerca
In esperimenti svolti prevalentemente con animali di laboratorio si sono confrontate situazioni nella norma con altre di animali trattati con antibiotici e privi per questo di microbiota, con o senza alcuni tipi di tumore. L’obiettivo delle ricerche era identificare il ruolo di specifiche popolazioni di microorganismi in diversi tipi di cancro, compresi quelli solidi. Sviluppi di questi studi potrebbero portare benefici sia nella cura, sia nella valutazione della prognosi tumorale e nella previsione della risposta alle terapie da parte dei pazienti.
Quando proliferano i tumori possono sfruttare anche le cellule senescenti. Si tratta di cellule la cui crescita è arrestata, ma sono cruciali per mantenere l’equilibrio cellulare e per rimuovere le cellule danneggiate. Le cellule senescenti diventano SASP (Senescence-Associated Secretory Phenotype), quando la loro morfologia e metabolismo cambiano, e quando iniziano a produrre e rilasciare nell’ambiente circostante proteine e fattori infiammatori. Mentre all’inizio si pensava che la senescenza avesse soltanto un ruolo protettivo contro i tumori, in recenti studi si è scoperto che può essere anche associata a una progressione maligna neoplastica.
Come funziona
Le cellule senescenti promuovono l’acquisizione di hallmarks tumorali attraverso diversi meccanismi. Il principale è la secrezione di molecole che promuovono la proliferazione, la formazione di metastasi o l’angiogenesi delle cellule cancerogene. Un altro processo, ben documentato in caso di resistenza alle terapie, fa acquisire nuovamente alle cellule senescenti la capacità di proliferare e le porta ad assumere le caratteristiche tipiche delle cellule tumorali.
Dove va la ricerca
Diversi ricercatori stanno indagando i processi molecolari alla base del comportamento ambivalente delle cellule senescenti, capaci sia promuovere sia contrastare il progresso tumorale. Il fine è impedire il primo effetto a favore di quello protettivo. In altre indagini si sta cercando, invece, di approfondire i diversi meccanismi con cui le cellule senescenti contribuiscono allo sviluppo neoplastico e gli effetti delle loro secrezioni nell’ambiente circostante.
Agenzia Zadig
Articolo pubblicato il:
16 marzo 2023