Ultimo aggiornamento: 24 gennaio 2023
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Le cellule staminali sono diverse dalle altre essenzialmente per due proprietà: da un lato sono in grado di replicarsi infinitamente o quasi, mentre le cellule di tutti i tessuti, dopo un certo numero di divisioni, si esauriscono. Dall’altro lato hanno la capacità di assumere le caratteristiche di altre cellule dell’organismo deputate a funzioni specifiche, attraverso il processo detto di “differenziamento”.
Per queste peculiarità le cellule staminali sono state candidate da anni a diventare i pezzi di ricambio ideali per riparare gli organi danneggiati da diversi tipi di malattie. Sono, infatti, al centro della ricerca della medicina rigenerativa, il cui obiettivo è ottenere tessuti o addirittura organi interi da sostituire a quelli danneggiati. Tranne poche eccezioni, la maggior parte degli studi al riguardo sono però ancora in fase sperimentale. Occorre per questo guardarsi dalle offerte di cure miracolose veicolate per lo più da siti web e spesso praticate in Paesi dove leggi, regole e controlli sanitari sono limitati. Negli ultimi anni in Italia il gruppo coordinato da Michele De Luca all’Università di Modena e Reggio Emilia ha ottenuto risultati all’avanguardia nel mondo per la riparazione della cute e delle cornee danneggiate, per le quali il trapianto non è un’opzione. È inoltre già in uso da diversi anni il trapianto di cellule staminali per curare alcuni tumori del sangue, in particolari linfomi o certi tipi di leucemie.
Le prospettive di ricerca sul ruolo delle cellule staminali nel cancro sono ampie, in particolare per le cosiddette cellule staminali tumorali. In molti tipi di tumore è stato dimostrato che il numero di questo tipo di cellule può contribuire all’aggressività della malattia. Ognuna di queste cellule sembra infatti dare origine a una cellula tumorale e a un’altra staminale tumorale e così via. Potrebbero quindi rappresentare un bersaglio importante per le terapie. Per questo motivo, i ricercatori le utilizzano per riprodurre alcune caratteristiche del tumore in cellule in coltura o in animali di laboratorio, per sperimentare la sicurezza e l’efficacia delle diverse cure. In altre ricerche si cerca di modificare geneticamente le cellule staminali tumorali, allo scopo di distruggere il tumore dall’interno. Inoltre, sembra ormai chiaro che siano le staminali tumorali a dare origine, spesso a distanza di anni, alle recidive che possono colpire pazienti il cui cancro, in un primo momento, sembrava del tutto estirpato. O alle metastasi, data la loro capacità di diffondersi nell’organismo.
Questo fenomeno sembra comune a quasi tutti i tipi di tumore. I ricercatori stanno quindi studiando i meccanismi cellulari che distinguono le staminali del cancro da quelle che sostengono il normale ricambio di tessuti dell’organismo, per colpirle solo le prime in maniera mirata. In questo modo si potrebbe in futuro, almeno in teoria, curare tutti i tipi di tumori, indipendentemente dalle loro caratteristiche specifiche. A questo scopo sono già in fase di sperimentazione alcune categorie di farmaci.
Altre linee di ricerca stanno cercando di rendere le staminali del cancro più suscettibili alle terapie, alle quali di solito esse resistono. Altri studiosi pensano di sfruttare le staminali tumorali come “testimoni” del decorso del cancro, che spesso inizia anni o decenni prima del manifestarsi della malattia. In questo modo intendono ricavare indizi sul ruolo di comportamenti e abitudini nella genesi della malattia e trovare il modo di arrivare a una diagnosi più precoce.
Tra le cellule staminali non tumorali, le cellule staminali embrionali sono dette totipotenti nelle primissime fasi di sviluppo, perché sono capaci di originare tutte le cellule di un organismo, anche quelle degli annessi extraembrionali, come per esempio la placenta. Nelle fasi successive diventano, invece, pluripotenti, cioè in grado di generare tutte le cellule dell’organismo, tranne appunto quelle dei tessuti extraembrionali.
Cellule con caratteristiche simili alle staminali embrionali sono state trovate anche negli individui dopo la nascita. Di solito sono chiamate cellule staminali adulte, sebbene si trovino anche nei neonati e nei bambini e per questo sarebbe preferibile definirle somatiche, anziché adulte. Queste cellule non hanno le complete potenzialità delle staminali embrionali, capaci di produrre tutti i possibili tessuti dell’organismo, ma sono già indirizzate in una determinata direzione. Per esempio le cellule staminali somatiche ematopoietiche sono capaci di generare ogni cellula del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) ma non altri tipi di cellule. Queste cellule sono dette multipotenti perché in grado di replicarsi e dare origine a più tipi di cellule, tutte però legate a una precisa funzione.
Inizialmente si pensava che le cellule staminali somatiche si trovassero solo laddove servisse un continuo ricambio di cellule, come nel midollo osseo per la produzione del sangue o a livello della mucosa intestinale. Tuttavia i ricercatori ne stanno trovando praticamente in ogni parte dell'organismo. Mentre quelle che rimpiazzano le cellule del sangue o dell’intestino sono in continua attività, quelle localizzate, per esempio, nel cuore o nei polmoni sono in uno stato quiescente da cui si risvegliano solo in particolari condizioni.
Da pochi anni è possibile produrre anche in laboratorio cellule staminali dette iPS (staminali pluripotenti indotte) a partire da cellule provenienti dalla pelle o da altre parti dell’organismo del singolo individuo. In questo modo tali cellule fanno un percorso a ritroso lungo il proprio processo di differenziamento. La scoperta ha permesso di superare in qualche misura i problemi etici legati all’uso delle staminali embrionali, evitando allo stesso tempo il rischio di rigetto in caso di trapianto da donatore. Inoltre la tecnica offre, almeno in teoria, una notevole disponibilità di cellule staminali provenienti dal medesimo paziente che si deve curare. Prima di passare alle applicazioni cliniche, tuttavia, occorre accertare sicurezza ed efficacia di questo metodo con apposite sperimentazioni negli esseri umani. Fra i rischi da considerare vi è la possibilità che queste cellule, quale effetto collaterale della riprogrammazione in laboratorio, possano assumere caratteristiche tumorali.
Un’altra ricca fonte di cellule staminali è il sangue del cordone ombelicale. Per questo al momento del parto le donne sono spesso invitate a conservarlo in apposite biobanche. Il tessuto potrebbe infatti servire per un eventuale trapianto a pazienti per i quali non siano disponibili in famiglia donatori compatibili.
In alcune biobanche pubbliche si possono conservare cellule staminali del cordone da usare per il bambino stesso o per un membro della sua famiglia, quando il nascituro o un suo consanguineo presentano una patologia per la quale è indicato il trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Senza il riconoscimento della validità clinica della patologia, la conservazione di queste cellule per uso personale non è autorizzata in Italia. Chi lo desidera può ricorrere a biobanche private estere, ma molti esperti hanno dubbi sull’utilità di questa procedura per diverse ragioni. La probabilità di averne bisogno in futuro è infatti remota, inoltre non esistono prove che il materiale, conservato per tanti anni, non si alteri. Infine l’affidabilità tecnica, etica ed economica delle biobanche stesse non è sempre accertata.
L’ematologia è il campo in cui il trapianto di cellule staminali è già largamente utilizzato, per la cura di alcune forme di leucemie e linfomi, ma anche di altre gravi malattie del sangue congenite o acquisite, o per consentire trattamenti aggressivi che, insieme alle cellule tumorali, distruggono anche le cellule del sangue. In questo caso le staminali che dovranno ristabilire le popolazioni cellulari vengono prelevate prima del trattamento intensivo, e poi reinfuse nei pazienti. Si parla in questo caso di autotrapianto.
All’autotrapianto si può talvolta ricorrere anche per curare leucemie o altri tumori del sangue, sottoponendo i pazienti a massicce dosi di chemio e radioterapia. In tal modo si distruggono tutte le cellule da cui originano le cellule del sangue, incluse quelle malate. Per ripristinare le popolazioni di cellule sane, ai pazienti vengono infuse le proprie staminali, che in precedenza sono state raccolte, filtrate e adeguatamente conservate (trapianto autologo o autotrapianto), o quelle prelevate a un donatore (trapianto eterologo o allogenico).
Le cellule staminali da trapiantare possono essere prelevate dal midollo osseo, pungendo in anestesia le ossa del bacino, oppure possono essere ricavate dal sangue periferico. In questo caso occorre aumentarne il numero, somministrando al donatore, nei giorni precedenti il prelievo, un farmaco che promuove la crescita di staminali nel midollo osseo e il loro passaggio al sangue circolante.
Un altro settore in cui si è già passati dalla teoria alla pratica è quello che prevede l’uso di cellule staminali di tipo epiteliale per la rigenerazione della cornea. Questo metodo è in genere usato in pazienti in cui la cornea è stata gravemente danneggiata, per lo più in seguito a gravi ustioni chimiche. Dopo l’intervento i pazienti di solito tornano a vedere. Altre applicazioni riguardano la pelle ustionata o colpita da gravi malattie ereditarie.
Le cellule staminali embrionali, quelle adulte e quelle riprogrammate in laboratorio (iPS) sono oggetto di studio in molti laboratori nel mondo come potenziale fonte di rigenerazione di tessuti danneggiati da malattie, tra cui l’infarto, le patologie neurodegenerative, o da incidenti, per esempio per ristabilire le connessioni nervose in pazienti paraplegici. Tutte queste possibili applicazioni sono però ancora sperimentali.
Nel midollo osseo, accanto alle cellule staminali emopoietiche, esiste anche un’altra popolazione di cellule dette “stromali” o “mesenchimali”. La possibilità di applicare alla cura di varie malattie la loro capacità di modulare i processi infiammatori in laboratorio è ancora da accertare, mentre non esiste alcuna prova che possano trasformarsi in cellule nervose come è a volte stato sostenuto.
Un gruppo di ricercatori sostenuti da AIRC ha scoperto negli anni scorsi che l’aggressività del tumore al seno può dipendere dal numero di cellule staminali in esso contenuto. Gli studiosi sono stati coordinati da Pier Paolo di Fiore all'IEO di Milano, nell’ambito del Programma di oncologia clinica molecolare sostenuto con i fondi derivati dal 5 per mille devoluto ad AIRC dai contribuenti. Il metodo che hanno trovato permettere di riconoscere e isolare tali cellule dalle altre. Un kit in corso di definizione potrebbe rendere la procedura più semplice, così da essere alla portata di tutti i laboratori. Un ulteriore obiettivo dello studio è identificare nuovi marcatori basati proprio sulle cellule staminali tumorali per valutare le caratteristiche della malattia, tra cui l’aggressività, e poter stabilire così l’approccio terapeutico più adeguato.
Le staminali del cancro, tuttavia, non sono importanti solo per il tumore al seno. I risultati di diversi studi suggeriscono che lo stesso fenomeno si verifichi anche quando il cancro si sviluppa in altre parti dell’organismo.
Inoltre, la maggior parte dei ricercatori è ormai convinta che dipenda dalle staminali tumorali anche la ricomparsa della malattia a distanza di molto tempo dalla sua remissione. Le cure, infatti, possono distruggere tutte le cellule tumorali, ma difficilmente riescono a eliminare le staminali del cancro, che possono restare dormienti per molto tempo, prima di riprendere il loro processo di replicazione.
Per evitare che ciò accada gli studiosi stanno concentrando l’attenzione proprio su alcune caratteristiche delle staminali del cancro. Hanno così scoperto che la replicazione asimmetrica che le caratterizza dipende anche dall’inattività di p53, una molecola capace di inibire la crescita tumorale. Se p53 è inattiva, la proliferazione delle cellule cancerogene è incontrollata. Con una nuova categoria di farmaci attualmente in fase di studio, le natline, si potrà forse bloccare la degradazione di questa preziosa molecola che potrà così riprendere così il controllo sul tumore, qualunque sia la sua sede di origine.
Un altro approccio è mirato all’immortalità delle staminali tumorali. Da che cosa dipende il fenomeno? Essenzialmente dalla straordinaria capacità di queste cellule di riparare il proprio DNA che si danneggia col passare del tempo. Per questo i farmaci inibitori dei meccanismi della riparazione, i cosiddetti PARP inhibitors, già utilizzati per il trattamento di alcuni tipi di tumore al seno e per il cancro alle ovaie in fase avanzata, potrebbero rivelarsi efficaci anche contro altre forme di cancro.
Nella ricerca si utilizzano le cellule staminali del cancro anche per riprodurre alcune parti o caratteristiche dei tumori in laboratorio, e per sfruttare tali cellule come possibili “cavalli di Troia” per colpire il cancro dall’interno.
Uno dei programmi sostenuti negli anni passati dalle donazioni del 5 per mille ad AIRC, è stato coordinato da Ruggero De Maria, all’epoca Direttore scientifico dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena e oggi all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel corso del programma i ricercatori hanno riprodotto in laboratorio parti dei tumori del polmone e del colon di singoli pazienti. L’obiettivo era valutare i farmaci più promettenti e identificare i pazienti che avrebbero potuto trarre maggiori benefici da ciascuna terapia. Recentemente, un gruppo di ricercatori dell’Istituto superiore di sanità ha approfondito tali studi in un progetto coordinato da Ann Zeuner del Dipartimento di oncologia e medicina molecolare, sostenuto da Fondazione AIRC. In particolare è stata trovata, nei tumori del colon, una piccola popolazione di cellule staminali tumorali dormienti. Oltre a essere potenzialmente più cancerogene, in quanto cellule staminali tumorali, sono anche molto resistenti alle terapie. La scoperta ha aggiunto un ulteriore tassello alle conoscenze sulle cellule staminali tumorali che, come abbiamo detto, rappresentano un bersaglio nella lotta ai diversi tipi di tumori.
Recentemente, un gruppo di ricercatori sostenuto da AIRC e coordinato da Francesco Nicassio, dell’Istituto italiano di tecnologia, e dallo stesso Pier Paolo di Fiore, ha individuato due interruttori molecolari (miR-146a e miR-146b) capaci di bloccare il tumore al seno. Inattivando tali interruttori si interrompe infatti la proliferazione delle cellule staminali tumorali. Inoltre, in uno studio guidato da Antonella Sistigu e Martina Musella, è stato individuato un meccanismo di resistenza ai farmaci nel tumore al seno. Tale meccanismo porta alla formazione di cellule staminali tumorali in grado di causare recidive e metastasi. Grazie al sostegno di Fondazione AIRC e del Ministero della salute, questo progetto di ricerca è nato dalla collaborazione tra l’Università Cattolica, il Campus Bio-medico di Roma, e la Fondazione IIGM.
Roberta Villa